“Se i ristoratori non hanno più clienti, che cambino mestiere“: in un virgolettato travisato (fino a che punto poi?) la più scomoda delle verità. Le parole del Viceministro all’economia Laura Castelli, distorte da un titolo semplicistico partito da Il Tempo a cui hanno (abbiamo, seppur senza virgolette) fatto eco quasi tutti, scatenano indignazione, sbigottimento, paura. Perché in quell’affermazione distorta, clickbait, terribilmente snob con l’aggravante del congiuntivo, che riesce ad esprimere tutto il distacco della classe politica dalla società – ricordandoci quell’altra frase, altrettanto romanzata, sulle brioche e una presunta Maria Antonietta – c’è il dramma di tanti ristoranti.
Perché nessuno si aspettava una franchezza tanto disarmante, una realtà tanto cristallina da mettere terrore, dalla bocca di un politico. La Castelli ha detto la cosa giusta, nel ruolo sbagliato: il virgolettato che le è stato estrapolato è quanto di più sbagliato si possa affermare, in un simile momento, per compiacere l’elettorato, ma è esattamente ciò che nessuno di noi ha il coraggio di dire a voce alta, o peggio, scrivere.
Ovvero, che molti ristoranti chiuderanno perché dovevano la propria sopravvivenza al lavoro in nero (poveri quei camerieri che oggi non possono nemmeno godere della cassa integrazione), senza il quale mai e poi mai avrebbero contato tanti servizi. Chiuderanno perché mediocri, “lasciando lavorare chi se lo merita”, come dicono sottovoce altri ristoratori, con i quali ho avuto modo di confrontarmi in questo periodo, certi del proprio business, della propria formula, di un progetto che ha una qualità e pure un pubblico che l’apprezza.
Chiuderanno, purtroppo, così come ogni crisi amplia il divario tra le “classi”, aumentando il gap tra il fine dining rivolto a chi la crisi la patirà meno e i fast food, il low cost in genere.
E molti chiuderanno a buon diritto, nelle città turistiche, dopo aver colpevolmente preso parte a e per decenni reiterato una proposta gastronomica caricaturale della cucina italiana, piatti e interi menu che non rendono onore alla nostra ristorazione né all’ospitalità di cui dovremmo andare orgogliosi. Questi, sono certa, sapranno reinventarsi.
Come evidenzia Massimiliano Tonelli sul Gambero Rosso, ci sono interi modelli da rivedere: quelli basati sulla pausa pranzo degli impiegati d’ufficio, per esempio. Il che è oggettivo, senza che i ristoratori debbano sentirsi minacciati dalle parole del Viceministro.
Parole mai dette, che in realtà vanno sostituite con:
“Questa crisi ha spostato la domanda e l’offerta. Le persone hanno cambiato il modo di vivere e bisogna tenerne conto, bisogna aiutare le imprese e gli imprenditori creativi a muoversi sui nuovi business che sono quelli che sono nati. Ci possiamo dire che sono nati? Sono processi di lungo termine, ma se una persona decide di non andare più a sedersi al ristorante, bisogna aiutare l’imprenditore a fare magari un’altra attività, a non perdere l’occupazione e va sostenuto anche nella sua creatività, che magari ha visto che c’è un nuovo business che può affrontare. Io credo che negare il fatto che questa crisi abbia cambiato la domanda e l’offerta di questo Paese, proprio in termini macroeconomici, sia un errore. Vanno aiutate le imprese“.
Ora che abbiamo riletto il vero intervento di Laura Castelli, che prende atto di un cambiamento di mercato e si prende la responsabilità, in quanto membro del Governo, di aiutare le imprese in difficoltà ANCHE a cambiare business – sottendendo, di fatto, la necessità di affrontare questo cambiamento per molti – siamo meno offesi? O meglio, siamo meno preoccupati per le attività che dovranno arrendersi o darsi a un altro mestiere? Non è una verità molto diversa: suona solo edulcorata, espressa in maniera politicamente corretta, più condivisibile e meno offensiva.
Il punto non è l’affermazione, il punto è che ci siamo indignati, anche se da mesi leggiamo “Chiusura per Covid-19” sulle saracinesche di attività malate da tempo, locali ai quali la pandemia ha dato solo il colpo di grazia. Ristoranti blasonati, persino, che hanno trovato nell’emergenza sanitaria una buona occasione per chiudere i battenti senza perderci la faccia. E tanti, tanti ristoranti senza arte né parte che ci hanno ricordato, durante il lockdown, quando sia bello mangiare a casa.