Con la pandemia in corso, probabilmente è stato inappropriato avviare una simile crisi, giuovane Valerio Braschi: dovresti saperlo che gli italiani sono ipersensibili alle rivisitazioni delle lasagne e della carbonara. O forse lo sai, e dall’alto dei tuoi 23 anni (e di una cucina che, diciamoci la verità, non si può propriamente definire avanguardista), hai sparato una boutade estemporanea ben sapendo l’effetto che avrebbe sortito.
La “Lasagna in tubetto”, accompagnata da “spazzolino di pasta all’uovo, brodo di parmigiano 60 mesi e 180 mesi”, beninteso, ha prevedibilmente suscitato l’indignazione popolare più generalizzata: dopotutto è del più pischello dei vincitori di MasterChef Italia che stiamo parlando.
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L’aneddoto sugli infanti che si “lavano i denti” con la lasagna del giorno prima suona come una supercazzola: è evidente che l’enfant prodige abbia capito su quali accordi puntare per vendere i dischi, avendo studiato bene l’agiografia. Su tutti, quella di Moreno Cedroni, che riprodusse una spugna usurata e inzozzata con il suo dessert “E adesso chi lava i piatti?“. Il senso è rappresentare un atto diverso dal mangiare e possibilmente lontano dallo stesso, pure un attimo respingente per chi sta cenando, all’interno di un percorso di degustazione.
Caso emblematico, e fece un certo scalpore, quello di Alvin Leung, che al suo Bo Innovation di Hong Kong, nel 2010, proponeva un preservativo edibile (così realistico che si capiva benissimo fosse stato usato) su una sabbia dolce. Il piatto si chiamava per l’appunto “Sex on the beach” e voleva lanciare un qualche allarme sull’Aids.
Ma non ciurliamo nel manico e andiamo alle autoriali, oltraggiosissime, lasagne che hanno preceduto Valerio Braschi, il giovane cuoco che non ha fatto niente di male se non studiare bene i suoi predecessori e unire due elementi che nel fine dining garantiscono successo: l’atto quotidiano mimato, che più scenografico non si può, e la rivisitazione del grande classico.
La parte croccante della lasagna, Massimo Bottura
La “lasagna” di Bottura vorrebbe rimandarci alla mente il tenero atto infantile di accaparrarsi l’angolo croccante della stessa. Un piatto di cui oggi non troviamo traccia, nel menu di Osteria Francescana, ma che fece chiacchierare tutto il mondo occidentale, tra il video che il New York Times gli dedicò agli Obama che lo mangiarono. Una tecnica composita che parte dallo spaghetto (stracotto, frullato, colorato), reso sfoglia e fritto, passato alla brace e poi bruciacchiato col cannello, affiancato da ragout al coltello, spuma di Parmigiano e cialde tricolore.
Le Lasagne alla Bolognese, Davide Scabin
È il 2013 e Davide Scabin, dal suo Combal. Zero di Rivoli (oggi chiuso, sigh), lancia 300 porzioni di “Lasagne alla Bolognese” disidratate in orbita, per la spedizione guidata da Luca Parmitano verso la Stazione Spaziale Internazionale (noi lo intervistavamo), dopo due anni di lavoro sull’umami, che allora ai più sembrava il nome di un tormentone esotico, per riuscire a riprodurre la sapidità del piatto in assenza di sale e gravità.
Maccheroni soufflè, Davide Scabin
Un anno dopo, nel 2014, lo chef sperimentava sulla pasta stracotta, ottenendo tra le altre cose un’altra “lasagna oltraggiosa” (la chiamò Maccheroni soufflè) che riusciva non solo a emulare la parte croccante, ma a giocare sulla morbidezza della struttura centrale della teglia. Da grandissimo cuoco classico, oltreché grande autore, Scabin riuscì a unire il pensiero avanguardista alla tecnica del soufflè.
I bordi della lasagna, Vincenzo Vottero
Una lasagna citazionista quella di Vottero, chef del ristorante Vivo di Bologna: sfoglie croccanti stratificano il ragù e la besciamella, in una versione più spinta e golosa del tradizionale “mappazzone”. Un piatto meno museale dei precedenti (chissà, a ristoranti riaperti forse potreste persino mangiarlo), vagamente paraculo, sicuramente meno scandaloso di una lasagna frullata in tubetto.
Lasagne alla bolognese, Daniel Facen
Cuoco classico fenomenale, sottovvalutatissimo, fa della lasagna una rivitazione senza pasta, cercando di recuperarne il profilo sensoriale in un bicchiere di Martini (allora andava di moda, col senno di poi lo si può perdonare) con una spuma di Parmigiano, una sferificazione di ragù e la “pellicola del latte” passata sulla griglia per riprodurre il sentore di besciamella bruciacchiata.