Mestre: la via Piave gastronomica oltre la droga

Lo strano caso di via Piave a Mestre, conosciuta dai più come la via dello spaccio del Nord Est, che sta cambiando grazie agli imprenditori della ristorazione, perlopiù cinesi. Dall'immigrazione che sembrava il problema, sta invece nascendo la soluzione.

Mestre: la via Piave gastronomica oltre la droga

Mestre, una città dormitorio, cresciuta all’ombra di Venezia e delle fabbriche di Marghera che in un modo e nell’altro le hanno sempre rubato la scena. Da qualche tempo invece Mestre la conoscono tutti: è l’hub della droga del Nord Est.

Il 15 gennaio 2025, durante la trasmissione “Fuori dal coro”, va in onda il servizio di circa 5 minuti “Nelle mani dei violenti: gli immigrati a Mestre fanno paura”, ultima pubblicazione del climax ascendente che ha raccontato la città come un posto non sicuro, colpa ovviamente dell’immigrazione e non della malavita.

Un servizio in cui si montano poche immagini d’effetto in modo che vadano in onda più volte, meglio se puntellate da una musica vagamente ansiogena con un microfono in mano a una signora col volto oscurato che parla a nome non si sa di chi, senza ovviamente nessun contraddittorio. Una tecnica giornalistica degna del Pulitzer. C’è anche di meglio ovviamente. C’è il documentario “Una Notte a Mestre in Via Piave la più pericolosa” del romano Simone Cicalone curatore del canale YouTube “Scuola di botte”; un documentario vero e umanissimo, in cui tuttavia si dice che qui le case si vendono a 15000 euro, un’inesattezza piuttosto grossolana.

Infatti, per la precisione, fino a qualche mese fa non era Mestre il problema, ma via Piave, arteria principale del quartiere più antico signorile della città, che va dalla stazione al centro e che è tutt’oggi puntellato di palazzi liberty. Una zona che ha sempre avuto una narrazione spietata: negli anni Novanta era la via della prostituzione, poi era la zona dei trans, all’inizio del 2000 quella dei bordelli orientali con malavita al seguito. Oggi che via Piave sui giornali “vende”, c’è chi fa del titolo sensazionalistico una conditio sine qua non per avviare le rotative, e per accorgersene basta fare una breve ricerca online dei titoli che il Gazzettino riserva alla questione.

Inutile negare che i problemi ci sono e sono complessi: fino a un anno fa si passeggiava, in piano giorno, in mezzo a una quindicina di pusher che piantonavano il chilometro scarso di lunghezza della via. E con i pusher i tossici, i micro furti, le spaccate e la sporcizia. Una situazione in parte endemica, in parte derivata da politiche altalenanti e insicure, a volte anche ingenue. Ma i problemi complessi necessitano, si sa, di soluzioni complesse e di una buona dose di creatività.

Così dopo le grandi operazioni di polizia guidate da tre prefetti che si sono succeduti in due anni, la situazione malavitosa è stata decisamente arginata e anche, in misura minore, il problema sociale. Ma la vera storia sta nel fatto che via Piave è stata salvata dalla ristorazione etnica. Nulla di nuovo, Sarpi docet; il punto è che Mestre non è Milano, e nessuno pensava che lo fosse tranne, probabilmente, la comunità cinese che qui ha cominciato a investire pesantemente.

I ristoranti da provare in via Piave

chicken flymiss bubble tea

Li ho contati: nel giro di ottocento metri ci sono dieci ristoranti orientali, due dei quali storici, uno pre Covid, gli altri nati negli ultimi tre anni. Alcuni hanno l’aspetto di un McDonald kawaii con orsetti, lucine, monitor digitali per ordinare e guanti di plastica monouso per non sporcarsi le mai mentre si mangia uno dei migliori polli fritti della città, quello coreano di Chiken Fly, o si sorbisce un Bubble tea di Miss Bubble tea, assieme a uno stormo di adolescenti vestiti in stile japandi. Altri sono più tradizionali, ma hanno abbandonato lo stile “riso alla cantonese e nuvole di gamberi” che, ahinoi, contraddistingueva ancora il ristorante cinese in città, e propongono piatti autentici che pensano a funzionare bene piuttosto che accontentare i gusti occidentali della clientela: su tutti l’anatra laccata servita con le crepes alla mandarina che fanno da Jasmine, in fondo al viale.

colazione cinese

Menzione d’onore per il ristorante Mozi, che ha preso e restaurato lo storico Bar Piave, sala da tè anni Settanta, di quelle con le tendine coordinate ai divanetti, che negli anni aveva subito un tracollo vertiginoso, diventando il punto di ritrovo dei pusher di cui sopra, che avevano adibito il piazzale antistante a piazza di spaccio, mensa e orinatoio pubblico. Oggi Mozi è celebre per il ramen preparato con il brodo che cuoce tutta la notte, per il cuoco che prepara i baozi freschi in vetrina e per la colazione cinese, a base di youtiao, il pane cinese fritto, il latte di soia fatto in casa e l’omelette di ostriche. In qualche modo il proprietario è riuscito a far ripulire completamente il piazzale (il comune ha mandato le lance con l’acqua ad alta pressione e ha sostituito i cassonetti rotti). Dopo un mese dall’apertura ha comprato anche un piccolo supermarket etnico adiacente che, rimanendo aperto la notte, riforniva di bevande quel popolo della notte che volevamo abbondonare.

E per il prossimo futuro ci sono due storici ristoranti specializzati in pesce e in piatti veneziani che stanno in una piccola laterale, al Piron d’Oro e Bepi Venesian, che hanno chiuso di recente, ma all’interno fervono già i lavori della nuova gestione, cinese. Cinese anche il ristorante Delizie, che un paio di anni fa ha sostituito Al Moro, trattoria borgese con chiocciola Slow Food che nutriva la borghesia industriale della zona. Uno di questi ristoranti italiani in realtà ha aperto una sede poco più in là, ma il trend è questo.

Nella via restano due baluardi italiani, se vogliamo pensarla così. Il bar Cucciolo, in vendita da anni per raggiunti limiti d’età della titolare, eppure ancora punto di riferimento per leccornie d’occasione: scatole di latta di amaretti Virginia, a Natale l’Offella della premiata offelleria (che credo che in città si trovi solo qui) e una serie di cioccolate provenienti dalla Germania in confezioni tridimensionali degne di Willie Wonka; e poi il caffè e una fetta di torta costano ancora 2,7 euro. L’altra mecca dei gastronomi del quartiere è la macelleria di Mario Frezza, da quarant’anni macellaio, che alleva animali da cortile nella sua casa di campagna, affumica salumi e prepara la castradina per la Salute (lui dice anche per i ristoranti di Cipriani).

via piave mestre

Ma non di soli ristoranti cinesi o coreani stiamo parlando, altro caso esemplare è quello del Gran Piave, in precedenza Grand Central. Un locale aperto nel 2020 dopo un accordo tra il comune e una società, la Grand Central srl, che aveva ottenuto la concessione dell’area pubblica per vent’anni, in cambio della sua riqualificazione. Dopo alcuni anni però la gestione italianissima ha dato forfait lo scorso ottobre, dopo aver subito un furto con spaccata, sostenendo che per il quartiere non c’è speranza. Poche settimane dopo il locale è stato riaperto da una cordata di imprenditori del Bangladesh che hanno rivisto il nome: dal provinciale Grand Central al lungimirante Gran Piave. Qualche giorno dopo l’apertura Venezia Today ha evidenziato come i dipendenti della passata gestione fossero in causa per ottenere i loro tfr e come, soprattutto, i nuovi imprenditori di Gran Piave paghino l’affitto alla società ce ha creato il locale e che, nonostante non gestisca più l’attività, gode ancora della concessione gratuita dello spazio pubblico.

Il motivo di questo fermento gastronomico è presto detto: Via Piave è vicinissima ad una zona in cui sono stati costruiti diversi grandi alberghi, ed è punteggiata di hotel Airbnb. Qui l’overturism veneziano ha portato una reale ricchezza senza nessuna controindicazione: i turisti che soggiornano movimentano la via, riducono la percezione del malaffare, e soprattutto mangiano. La comunità cinese è stata la prima ad accorgersene, altre comunità straniere stanno investendo. Il commercio italiano ritornerà? C’è chi giura di sì, anzi, con il nuovo progetto della stazione di Mestre, bando attivato dal comune da Ferrovie dello Stato a fine 2024 per 98 milioni di euro, c’è chi giura che in qualche anno qui ci sarà la fila per comprare casa o impiantare una nuova attività. Forse allora torneranno anche gli imprenditori italiani, posto che oggi, fare un distinguo di nazionalità in una città che ospita 8 milioni di turisti l’anno abbia davvero senso.