La nostra recensione di La Tavernaccia a Roma, o meglio La Tavernaccia da Bruno, osteria veramente “slow”.
Ci sono posti che sfuggono alle classificazioni, alle mode e pure al tempo. Ci sono posti che non sono sulla bocca di tutti, ma saldi nel cuore di molti. Per gli underdogs incapricciati delle ricercatezze da wunderkammer, un po’ narcisi, un po’ antropologi, un po’ esploratori, questi sono i posti più ambiti: i gioielli della collezione da mantenere intimi e “segreti” – orgoglio del gastronomo sgamato – da condividere solo con familiari e amici degni, per estenderne la benedizione e strappar loro un sano ooh.
Sono posti trovati per caso, per combinazione, o direbbe qualche fideista per fatalità: come se il giorno in cui cercavi le lasagne a Roma e un po’ d’aria di casa fosse tutto stato scritto, che avresti incrociato le sfoglie cotte al forno a legna della Tavernaccia, che ci avresti trovato la carezza che serviva, che ci saresti tornato tante volte.
Attenti quindi, ché a divulgarvi questo segreto personalissimo un po’ soffro; perché magari v’innamorate pure voi e la prossima volta che vado a pranzo da Patrizia non trovo posto.
Il ristorante
Patrizia, detta Patty, gestisce la sala e la credenza della Tavernaccia, o meglio, de la Tavernaccia da Bruno, dal nome del papà (del locale e di Patty) Bruno Persiani che lo fondò nel 1968; in cucina lo chef è il partner Giuseppe Ruzzettu, sassarese d’origine, romano d’adozione.
Grandi volte di pietra a vista e memorabilia di civiltà contadina fanno caldo contorno ai tavoli stretti quanto basta per stare vicini, tovagliato e apparecchiatura emanano semplicità e raffinatezza naturale.
Al centro della sala, un’isola di credenza custodisce i freddi e i crudi: formaggi e salumi, sottoli, giardiniere, cassetti di pane caldo, i contorni di verdure, l’olio. Intorno, vini, dovunque. Alle spalle, il cuore pulsante del ristorante: il forno a legna dal quale sfila, come in un racconto dei Grimm, una processione di lasagne, punte di petto alla fornara, maialini cotti interi (firma a denominazione d’origine dello chef), focaccine all’olio da godersi con l’antipasto.
Ma non sono la sala in sé, né i piatti in sé, la chiave per comprendere l’eccezionalità di questo ristorante: andate a mangiare, sedete, ordinate. Chiamate Patrizia, parlateci, ne sarà lieta. Chiedete dei prodotti che usano, delle origini, dei contadini. Chiedete del caseificio in Puglia, dell’allevatore marchigiano, del norcino umbro; chiedete da dove arrivano le conserve, i carciofini, la giardiniera.
Ascoltate, prendetevi tempo; guardate come scintillano gli occhi di chi vi risponderà. Nonostante l’immane lavoro che comporti gestire un parco ampio di piccoli fornitori, guardateli ancora: dietro la fatica, più forte, c’è la convinzione di fare le cose a modo – c’è un’idea che è già un ideale. C’è soddisfazione nel vedervi mangiare e, nel sapervi mangiare come desiderano, ecco la chiave: c’è felicità.
La cucina, semplice e diretta, vive del mercato e di un menu che vi ruota attorno ad altissima frequenza.
Alla Tavernaccia ogni prodotto è scelto con grande cura, con la passione di chi ama godersi il cibo prima ancora che servirlo, e lo vive come comunione, emozione, sincera passione; ripescando questi vocaboli dal calderone degli abusi mediatico-gastronomici per nettarli dal lerciume markettaro e restituirli al loro puro significato.
I piatti de La Tavernaccia a Roma
A La Tavernaccia a Roma, i primi figli di questa passione sono i misti di salumi e formaggi (14 euro), variabili in base a disponibilità e alle stagioni, spigolati da produttori in giro per lo stivale (per i formaggi, al momento della visita: fattoria Ma’Falda, Fattoria Calcabrina, Pietro Cetrone, Agricola Montalbo; per i salumi: Re Norcino, Antica Ardenga, fratelli Billo).
La selezione di tagli freddi non teme paragoni, i latte crudo di pecora e capra raggiungono apici di soddisfazione che sarebbero sufficienti già da soli a giustificare tutto un pasto: sono prodotti in grado di raccontare storie e realtà, spesso biologici o biodinamici.
E va da sé che quest’ultima caratteristica non sia dovuta a un puntiglio della gestione – non siamo in un bistrot biovegan che serve soia certificata, pompata di fertilizzanti appena sotto le soglie di legge, e trasformata in blocchetti inerti da industrie con la carbon footprint di un branco di elefanti – ma sia piuttosto la conseguenza inevitabile della scelta di ristoratori che amano il proprio mestiere di relazionarsi con agricoltori e trasformatori che amano il proprio mestiere anche loro, e hanno stabilito con la terra un legame più armonico di quello proposto dai modelli produttivi convenzionali.
Il risultato? Parla già in foto, figuratevi in bocca.
Sulla stessa onda i crostini di pane buonissimo (prodotto da un forno locale: quando ho chiesto a Patrizia se lo facessero loro, la risposta illuminante: “Se c’è qualcuno che lo fa di professione e meglio di me, perché devo farlo io?”. Un applauso) animati da un olio della Sabina vivo, ornati da un ciauscolo che più buoni non ce n’è, da caprino e asparagine, da lardo e miele (6,5 euro l’assortimento di tre assaggi).
A sgrassare, carciofini alla brace sott’olio di Agnoni e giardiniere assortite de La Giardiniera di Morgan.
Sul versante primi, abbiamo goduto di un ottimo raviolo ripieno di coda con sugo alla vaccinara (14 euro): delicato e deciso, viscoso ma non grasso, arrotondato dal cacio abbondante ma rinfrescato dal taglio acidulo del pomodoro in cottura leggera.
Le pappardelle al ragù bianco di cinghiale (14 euro) si presentano ricche di sugo e di carne, ben mantecate, le verdure in evidenza. In bocca la dolcezza della carota e del soffritto di cipolla sfuma nella consistenza del cinghiale, forte e chiaro ma non invadente, che ben accompagna il morso della pasta ruvida e spessa al punto giusto concludendosi in note di ghianda e finemente selvatiche.
Infine la gricia (12 euro), uno dei must della Tavernaccia, semplicemente (ma non leibnizianamente) “la migliore delle grice possibili” – avvincente, ricchissima, su spaghettone all’uovo di Secondi.
Ma i pièce de résistance, i piatti che meglio spiegano questo locale e la sua unicità all’interno del contesto metropolitano, fatta di annodamenti a doppio filo con altri spazi e altri tempi, quelli della campagna, sono i secondi al forno: lunghe cotture e altissime concentrazioni per la punta di petto alla fornara (15 euro), il brisket de noantri, tenero quanto succulento, sapido, che rilascia al morso un’essenza di vitella watery con un fondo umami da fare invidia al miglior Giappone.
Vizio puro a pari merito è anche il maialino al forno (15 euro), tagliato in tranci flintstoniani, la croccantezza delle cotenne come un biscotto casereccio, il grasso fondente a caramella, le carni fitte e morbide, profumate di macchia mediterranea.
Da bere, troverete una bella selezione dei vini che piace bere ai gestori, con molte referenze bio e naturali annidate tra gli scaffali.
A disposizione per chiudere il pasto, per gli impavidi, tartufi di Pizzo Calabro e i dolci di Sal de Riso.
Concludendo, a La Tavernaccia a Roma Godetevi tutto con calma, secondo uno spirito slow che non deve conoscere fretta, in cui la terra e il piatto tornano a collegarsi e il tempo del pasto è sacro. Dilungatevi dopo mangiato a chiacchierare e bere digestivi artigianali, spogliatevi della fretta e della sovrastrutture e sentitevi a casa. Portateci gli amici, i parenti, ma solo quelli che se lo meritano altrimenti, questo segreto, che segreto è. E magari pensate anche a me e in cuor vostro ringraziatemi, sapendo che se un giorno verrò a pranzo e vi sarete presi il mio tavolo, siederò con voi.
Informazioni
La Tavernaccia da Bruno
Indirizzo: Via Giovanni da Castel Bolognese 63
Sito Web: https://www.latavernacciaroma.com/
Orari di apertura: tutti i giorni 12.45-15 e 19.30-23. Chiuso il Mercoledì.
Tipo di cucina: tipica romana e italiana “naturale”
Ambiente: semplice ed elegante
Servizio: preparato e amichevole