Ogni anno un direttore Guida Michelin si sveglia e sa che dovrà trovare qualche nuovo modo per sembrare al passo coi tempi. Ogni anno un giornalista gastronomico si sveglia e sa che dovrà trovare qualche nuovo motivo per criticare la Guida Michelin. Adesso: dire “mabbasta, criticare la Rossa è diventano ormai un cliché, e poi si vede che state a rosicà”, è diventato a sua volta un cliché. Dunque io stamattina, il giorno dopo l’annuale presentazione della Guida Michelin 2022, mi sono svegliato, e mi sono chiesto: ma una critica seria all’autorevole e prestigiosa pubblicazione, è stata mai fatta? E mi sono risposto: no. O meglio: in Italia, no. Non mi pare, accetto smentite.
In verità era un po’ di tempo che ci andavo pensando, o meglio che è affiorato alla mia coscienza un dato di fatto che era rimasto sottotraccia, ma che una volta formulato non mi ha meravigliato per nulla: all’estero, sulla stampa straniera in particolare anglo-americana, la Michelin da mo’ che non è più la Bibbia, l’incontestabile parola del Signore. Anzi, si è già passati alla fase successiva rispetto a quella delle critiche: si cita la prestigiosa dispensatrice di stelle come espressione di un modo di mangiare, e di pensare il fine dining, sul viale del tramonto.
La percezione della Michelin in Italia…
Il sistema hanno iniziato a metterlo in dubbio proprio gli chef: quelli come Ferran Adrià che, arrivati sul tetto del mondo, hanno preso e chiuso il ristorante; ma ci sono anche casi meno noti e però più clamorosi, come quello di Dani García che nel 2018 becca la terza stella e appena qualche mese dopo, nello stesso anno solare, fa calare il sipario sul suo omonimo ristorante. Poi ci sono quelli che la stella l’hanno rifiutata, o riconsegnata, o che hanno fatto sapere alla Michelin di non mandare i propri ispettori perché loro a essere giudicati non ci stanno, come lo chef sudcoreano Eo Yun-gwon un paio d’anni fa, quando addirittura è arrivato a sporgere denuncia. Certo per ogni cavallo pazzo che si sottrae al gioco, ce ne sono dieci o cento che stapperebbero bottiglie per entrare nella Guida. Buon ultimo, per esempio, il nostro Ciccio Sultano il quale qualche giorno fa ha detto che se non prende la terza stella entro il 2025 chiude il ristorante a Ragusa.
Non voglio dire che in Italia non si siano mai levate voci dubbiose, ma quasi mai nei media mainstream, e comunque su aspetti più di etica e trasparenza nelle modalità di giudizio. È una battaglia questa, che sta portando avanti da anni Valerio M. Visintin, il critico mascherato, che dell’indipendenza, libertà e pulizia del giudizio ha fatto la sua cifra, pratica e teorica. Troppo pochi gli ispettori, una delle pecche evidenziate, e troppo oscuro il processo che porta alla formazione delle opinioni e all’assegnazione delle stelle: il che se da un lato è legato alle esigenze di anonimato, dall’altro consente di essere fuori da qualsiasi controllo. Qualche anno fa, quando la Michelin provò ad aprire un servizio di prenotazione per i ristoranti segnalati, di fronte a quel clamoroso caso di conflitto d’interesse si espresse persino Enzo Vizzari, a sua volta direttore delle Guide dell’Espresso, un concorrente quindi.
Dal canto suo Nicola Perullo, nel suo libro Del giudicar veloce e vacuo ha parole di fuoco sia per la disintermediazione del siamo tutti recensori su TripAdvisor, sia sulle istituzioni paludate e monopolizzatrici come la Michelin: “… orienta e ratifica, perché il ‘gusto della gente’ […] funziona così: dammi i numeri, le posizioni e le stelle a cui posso incatenare il mio gusto così da controllarlo e tenerlo a bada, senza tanto pensare. Ti sto chiedendo, per cortesia, di privarmi della libertà senza regole e guide di apprezzare quel che mi va…”. Ma Perullo, professore di Estetica all’università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, non è certo l’epitome del critico/giornalista gastronomico medio italiano.
… e all’estero
Tutt’altra musica fuori di qui, in America e in Inghilterra soprattutto, ed è un po’ paradossale vista l’alta considerazione della Guida per New York e Londra, e la diffidenza che da sempre hanno i cugini d’oltralpe nei confronti della nostra gastronomia. Nel 2012, non l’altroieri, il grande critico A. A. Gill sparava a palle incatenate, e lo faceva su Vanity Fair, mica sul suo blog, scrivendo per esempio: “L’Italia ha incredibilmente pochi ristoranti a tre stelle, a quanto pare perché i criteri di complessità e presentazione non sono all’altezza degli standard Michelin (francesi), e i curry meravigliosamente ricchi e variegati dell’India sembrano chiaramente sconcertare la guida. La città con più stelle è Tokyo, ma molti dei suoi ristoranti hanno a malapena una manciata di sedie e la maggior parte beneficia della riverenza gallica per il modo ossessivo-compulsivo di concepire le salse, e per la perizia degli uomini in grado di maneggiare il coltello. Sia a Londra che a New York, la guida sembra aver completamente perso contatto con il modo in cui la gente mangia davvero, essendo ancora molto incline a premiare luoghi pieni di lusso, orpelli e sussiego che usano ingredienti costosi serviti con pompa accattivante a plutocrati leccati e alle loro silenziose accompagnatrici a pagamento”. Niente male, eh? (Non so cosa darei per scrivere così, RIP Gill.)
Ma poi, a livello pratico sta Michelin conta ancora qualcosa? In generale le guide, il cosiddetto giudizio dei competenti, contano qualcosa? Discorso ampio, che mi ricorda un po’ quello dei premi letterari: quante copie (soldi) spostano? Certo il Nobel, e in Italia lo Strega, cambiano la vita a chi li riceve (e a chi li pubblica). Ma gli altri? Scommetto che la maggior parte degli scrittori agogna più che altro un’ospitata da Fazio. Certo per le guide, e le guide ai ristoranti di lusso, la questione è un po’ diversa, perché si rivolgono a un pubblico che la disponibilità economica ce l’ha, e che quindi è disposto ad andare in certi posti. Ma se fosse proprio questo il problema? L’assoluta autoreferenzialità di un sistema chiuso?
I tentativi di modernizzazione
Ogni anno, da non so più quanti anni in qua, quando si avvicina la presentazione della nuova Guida Michelin, c’è un certo friccico tra gli appassionati di pizza e i critici spettinati: dai che quest’anno ce la facciamo, ci si conforta a vicenda, dai che Pepe – o Padoan, o qualcun altro dei pizzaioli star – a sto giro la prende la stella. E invece no: benché da dieci se non venti anni la pizza sia diventata gourmet – con relativa lucidata a ingredienti, impiattamenti, locali, e costi – la stella Michelin alle pizzerie non va. E dire che altrove si premiano posti alla buona e addirittura banchetti di street food; anche se questo a sentire alcuni esperti si è trasformato in un boomerang: “Le persone guardano al valore in modo diverso. Un tempo i ristoranti di fine dining erano di alto valore perché la qualità che offrivano era difficile da trovare in altri posti”, ha dichiarato a Eater Jake Young, managing partner di Vucurevich Simons Advisory Group, una società di consulenza per ristorazione e hotellerie. Ora “la gente vede le qualità artigianali dietro i menu, e questo è il valore che stanno cercando”.
Questi e altri tentativi di modernizzazione rischiano di sembrare operazioni di facciata, espressioni di giovanilismo un po’ cringe. Per esempio annunciare i nuovi ingressi in guida non tutti in una volta, ma un po’ qui un po’ lì durante l’anno – come si è deciso di fare a Londra e poi a New York – è uno stillicidio che sa tanto di clicbait. Come pure, chiaramente per attirare l’attenzione e dare la sveglia a chi s’è mezzo addormentato, i Bib Gourmand ogni anno vengono annunciati una settimana prima dell’evento principale.
E se le stelle verdi rispondono a un’esigenza molto sentita rispetto alla sostenibilità ambientale, proprio una mezza gaffe mi pare il premio Chef Donna: visto che c’è scarsa presenza femminile tra gli stellati, costruiamo un ghetto, no? Motivare invece, come è stato fatto quest’anno, l’assegnazione del premio Giovane Chef a Solaika Marrocco con la “femminilità di una cucina leggera e ricercata”, è una gaffe intera, sempre a parer mio eh.
Ma non se ne parla, o se ne parla tra noi: quest’anno nella solita consultazione che si fa in redazione per arrivare al pezzo dei pronostici sulla prossima Michelin, era tutto un “X meriterebbe la stella, ma non gliela daranno perché non ha le tovaglie inamidate” o “Y fa una cucina bolsa e noiosa, ma non lo toccheranno mai”. Tanto che la maggior parte di noi ha espresso, più che pronostici, auspici: puntualmente disattesi.
Perché poi gira e volta la questione è quella lì: noi e voi, non ricchi ma gastrofissati, per quanti ristoranti stellati saremmo disposti a vendere un rene o ipotecare l’appartamento di nonna? Temo non oltre il 20, 30%. Metaforone scontato ma efficace: la Michelin è come quelle stelle lontane, che noi sulla Terra continuiamo a vedere, ma che in verità si sono spente migliaia di anni fa.