Negli ultimi decenni, il modo di sentire, fotografare, arredare, vestire e cucinare delle culture nordiche, che non vanno considerate superficialmente come un blocco unico ma come un contesto culturale con molte sfaccettature, si è imposto fortemente all’attenzione. Influenzando in modo esplicito lo stile culinario e quello architettonico. Partendo da Roma, la città in cui vivo e scrivo, mi è sempre sembrato che non ci fosse nulla di più distante dall’universo scandinavo di una città con una sua storia, anzi molte storie sovrapposte, abbondante e tutt’altro che minimale, spesso resistente ad accogliere le novità esterne, senza eccezione per quelle gastronomiche. Tuttavia, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato. Un approccio nordic-influenced, dichiarato o sostanziale – cerchiamo di capirlo meglio tramite questo articolo – è arrivato anche qui.
Le premesse
Individuare i tratti salienti della cucina nordica necessita di uno spazio lungo ed è un’operazione che rischia di diventare oziosa. Come dire che la cucina italiana, da nord a sud, passando per centro e isole, è una cosa uguale e ripetuta. Giusto per avere qualche riferimento, nel 2004 è stato pubblicato un manifesto della nuova cucina nordica, firmato da 12 chef, distribuiti tra Danimarca, Finlandia, Svezia, Isole Åland e Faroe, Islanda, Groenlandia. Poi c’è la questione dalle materie prime, specifiche di quelle latitudini e della tipologia di suolo, di luce e di mare.
Poi le lavorazioni e le tecniche, che riescono ad allungare i tempi di vita degli alimenti, soprattutto dei vegetali, con fermentazioni, conservazioni, stagionature, affumicature. Poi il foraging e il ricorso al minimalismo per l’allestimento dei piatti. Insomma non vorrei mortificare la discussione, ma è noto che la scuola dei cuochi scandinavi, il Noma di Redzepi in testa, abbia reso certi approcci, paradossalmente da luoghi talvolta remoti, noti e riconosciuti a un pubblico ampio.
Cucina nordica a Roma?
Cosa è successo a Roma? Prima di tutto che molti cuochi e cuoche hanno lavorato in quei ristoranti per poi tornare in Italia con un bagaglio di competenze arricchito. Hanno ibridato gli stili e aperto nuovi spazi. In primis sono arrivate alcune ricette, gli Smørrebrød ad esempio, poi le materie prime, poi le tecniche e le fermentazioni. L’apertura di un locale come Marigold (la proprietaria, Sofie Wokner, è danese) ha fatto da apripista. Sara Scarsella e Matteo Compagnucci, cuochi e proprietari di Sintesi ad Ariccia, hanno lavorato anche in Danimarca, riportando alcune tracce di quel mondo nella loro cucina e fondendole con altre esperienze.
Poi Forno Conti, che mischia ricette di panificazione italiana e nordica, in un ambiente volutamente scandinavo. Poi due locali vicini ma differenti, in zona Prati: Carter Oblio, in cui la presenza nordica è più una nota d’ambiente, e Aede, l’ultimo di questa seria ma anche il primo locale a proporsi sulla scena romana in modo schierato. Facciamo “Cucina nordica e contemporanea nel centro di Roma”, scrivono.
La parola ai designer
Invece di partire dei piatti però, che sono forse l’ultimo tassello del puzzle, mi pare necessario partire dal concept, dall’identità che rende un locale nordico o meno. Per questo ho interpellato Eleonora e Alessandro, di Næssi Studio, studio di design e consulenza creativa con base a Roma. Oltre ad avere le idee molto chiare, entrambi sono grandi appassionati di cucina e assidui frequentatori di ristoranti.
“Partiamo da una riflessione generale: ci sembra evidente che noi romani abbiamo un deficit importante sulla cultura del brand – mi dicono Eleonora e Alessandro – Il ristorante è un progetto che ha bisogno di un concept, un’identità concettuale in grado di essere nucleo fondante di tutte le azioni. Conosciamo pochissimi posti così, che riescono ad attuare una visione globale”.
Un esempio: “Pensiamo a un piatto di vegetali, manipolati con cura, impiattati in una scodella in ceramica che trasmette matericità e artigianalità. È una bella immagine no? Pensiamo poi a quello stesso piatto su un tavolo di truciolato con top in laminato effetto legno servito a un ospite seduto su un divanetto imbottito di poliuretano e rivestito di velluto sintetico. Il risultato è che la fruizione di quel piatto viene alterata da tutte le scelte che sono state fatte intorno ad esso che rendono l’esperienza finale incompleta, meno incisiva e forse anche frastornante. È un esempio banale ma anche comune: sono cose che succedono nella maggior parte dei ristoranti, anche tra quelli che amiamo e frequentiamo”.
La lezione di Ikea
Dunque questo discorso ci fa capire che, se manca una visione globale di cosa si sta facendo e comunicando in un ristorante, con scelte sinergiche e coerenti, qualsiasi sia l’approccio di ispirazione, potrebbe risultare più di facciata che sostanziale. Così anche quello che richiama il Nord-Europa, per ragioni che sono anche contestuali e storiche: “Il design danese per la casa negli ultimi decenni è stato particolarmente in voga. Pensiamo a Ikea, arrivata in Italia nei primi anni ’90: imitando i progetti dei grandi designer (es. Alvar Aalto), ha educato in modo superficiale a una certa estetica. Allo stesso tempo, però, ha viziato il mercato rispetto all’autenticità, al valore dei materiali, al costo di una lavorazione e al tempo di trasformazione della materia”
Tutto chiaro fin qui. Cerchiamo però di capire: quali sono gli elementi di stampo scandinavo che definiscono in modo autentico un ristorante e, più ampiamente, uno spazio? “Lo stile nordico predilige scelte cromatiche che invitano al godimento della luce naturale. Raramente c’è un filtro tra esterno e interno: le vetrate sono superfici trasparenti per uno scambio continuo tra indoor e outdoor”
“È inoltre uno stile che dialoga bene con il design storico e contemporaneo ma seleziona pezzi non troppo connotati rispetto al periodo. Si tende alla scelta di oggetti eterni e a prediligere l’acquisto di pochi pezzi ma di grande valore, culturale ma anche economico. I prodotti hanno un ciclo di vita più lungo della vita dell’acquirente, per cui, tornando ai ristoranti, un tavolo consumato in corrispondenza della posizione dei piatti è un ricordo prezioso delle cene e dei pranzi che ha accolto, la prova che quell’arredo ha una storia da raccontare”.
La questione delle materie prime
E ancora, proseguono Eleonora e Alessandro. “A questo aggiungeremmo l’autenticità. Nel nord Europa, in Danimarca soprattutto, c’è una cultura così radicata delle materie prime per cui nulla è “effetto qualcosa”. Il finto legno, tanto in uso in Italia, per un danese è una completa assurdità, ad esempio, perché in quei contesti ogni materiale interpreta sé stesso senza creare distorsioni percettive: il legno fa il legno, con i pregi e i difetti legati alla sua natura per cui si macchia e si scurisce. Allo stesso modo il ferro si ossida o le pietre si levigano con l’usura, arrotondando le forme e perdendo la lucentezza”. E questo nei ristoranti succede ogni giorno.
Ma i caratteri che si ispirano lo stile nordico sono anche altri: “Spazi non saturi e pareti vuote come superfici da decompressione – per inciso, i primi tempi in cui i miei amici andavano da Marigold tornavano dicendo di aver trovato un locale vuoto – ma anche elementi liberi per modificare la configurazione e rendere il ristorante un organismo vivo e flessibile. La presenza di elementi uguali ripetuti (es. tavoli e sedie tutti uguali) definiscono una situazione non gerarchica, evocando modelli spartani, dunque autentici e genuini, di accoglienza. Il contatto con la natura avviene tramite il cibo in primis ma è aiutato da piante – vere, ovviamente – accessori in legno grezzo, candele, essenze naturali. La brand identity è presente, si legge ma non sovrascrive l’esperienza al livello percettivo infatti non ci sono molte insegne e quelle presenti sono piccole e sobrie”.
La scena romana
Dunque come ci stiamo muovendo a Roma rispetto a questo approccio? “Al momento non percepiamo totale consapevolezza nel fondere gli stili: non basta un tavolo tradizionale a quattro gambe in legno chiaro, piazzare un detergente Aesop sul bancone o lasciare nude le pareti della sala per sentirsi scandinavi – dicono schiettamente Eleonora e Alessandro.
“Forse il modello nordico si stia imponendo anche perché, nel mercato attuale così ricco di proposte, i progetti radicali hanno più possibilità di affermarsi”. Quindi l’approccio fake alla cultura nordica, se gestito con superficialità, è dietro l’angolo. A proposito cito le parole di Jacopo Ricci all’apertura del suo ristorante ai Castelli Romani: “Va bene tenere gli occhi aperti verso il mondo, ma fare la Danimarca a Frascati non ha senso, credo che si debba stare con rispetto nell’ambiente in cui si entra”.
Nonostante queste premesse, non solo potremmo essere all’inizio di un fenomeno che durerà e di cui parleremo ancora, ma che diventa addirittura auspicabile. “La cultura scandinava è molto radicale: pochi semplici elementi fluttuano in uno spazio funzionale lasciato nella sua essenza. La nostra cultura, invece, è fatta di stratificazioni di stili diversi: viviamo in una città che è un insieme di frammenti eterogenei sovrapposti fino a nascondersi reciprocamente. Proprio per questo pensiamo che ci siano i margini per fare un buon lavoro anche a Roma. Sovrapporre ai nostri spazi, alle nostre intuizioni e tradizioni una visione così illuminata creerebbe degli ibridi unici, non riproducibili altrove, dei progetti e dei luoghi in cui vivere esperienze davvero coerenti e significative”.