L’ultimo segnale mi è arrivato ieri sera: da amici di ritorno da un ristorante storico ma senza pretese, non lontano dalla statale che taglia l’entroterra del Cilento per puntare verso sud. Uno di quei posti dove andavano vent’anni fa i nostri genitori, e che quindi abbiamo sempre considerato “da vecchi”, in cui il massimo che puoi rimediare è un fusillo fatto in casa con ragù di castrato, sperando che sia cavato bene e non rimanga crudo dentro. E invece, sorpresa: “Abbiamo mangiato bene, certo si è speso un po’ tanto ma ne valeva la pena, tutto il menu a base di pesce”. Di pesce? “Sì soprattutto antipasti, vari e sfiziosi”. E ma tipo? “Per esempio la tartare di tonno con chips di mela”. La tartare. Di tonno. Con CHIPS di mela.
Ora. Se non ci siete mai stati, o se ci siete venuti per la prima volta quest’estate, dovete sapere un paio di cose del Cilento – estrema propaggine della provincia di Salerno, amministrativamente ancora Campania ma geograficamente e culturalmente già Lucania (avete presente dove si è fermato Cristo? Ecco, subito dopo Eboli inizia il Cilento). Dal punto di vista gastronomico, è la patria della dieta mediterranea, la terra dell’olivo e della vite, e dei vecchietti ultracentenari e asciutti studiati da Ancel Keys. Dal punto di vista turistico, è uno di quei posti certo non sconosciuti ma con angoli ancora mezzo selvaggi fino a qualche anno fa, con tutti i pro e i contro della #vitalenta, come recita un hashtag di moda: l’acqua che può mancare il 15 agosto, stradine strette e mezzo franate da decenni, gente che non ti accoglie proprio a braccia aperte ma resta lì tra il diffidente e lo scocciato. Dal punto di vista del turismo gastronomico, tutto questo produce un’offerta fatta di prezzi accessibili e porzioni abbondanti, di qualità media con picchi verso l’alto ma anche verso il basso, incentrata su poche pietanze locali, genuine e prevalentemente vegetariane (verdure, legumi, formaggi caprini) rinforzate da una quasi onnipresente salsiccia alla brace e da più originali piatti di carne in umido: un posto tipo la Grecia continentale o la Croazia, dove puoi mangiare tanto spendendo poco, tollerando il servizio moscio e qualche disattenzione, e scoprendo qualche perla nascosta. O forse dovrei dire: potevi.
Perché è vero, le cose cambiano un po’ alla volta, finché non ti accorgi che sono cambiate del tutto. Ma mi sembra – e lo dico da cilentano adottivo, che nelle troppe estati vissute finora non ha mai saltato un passaggio, breve o più spesso lungo, in zona – che certe cose siano mutate nel volgere di una stagione. Due cose, essenzialmente: i prezzi, e i menu. Che si sono uniformati, urbanizzati, mi verrebbe da dire milanesizzati. Facendo un po’ perdere al Cilento le sue peculiarità: che non sono tutte positive, torno a dire, ma che certo sono (erano?) uniche.
Sarà stata la pandemia e il post-pandemia, che da un lato ha portato a una ripresa del turismo con una notevole effervescenza e voglia di scoprire posti nuovi; dall’altro insieme alla guerra in Ucraina ha causato un aumento delle bollette e dei prezzi in generale; ma qualcosa è cambiato.
A livello qualitativo: sembra che i ristoratori cilentani abbiano scoperto bell’e buono le possibilità della cucina di pesce. Ora, sempre a beneficio di chi ne sa poco, bisogna dire una cosa controintuitiva ma non meno vera: la cucina tradizionale cilentana è cucina di terra. Perché di base, nonostante i chilometri e chilometri di costa variegata che vanno da Paestum a Sapri passando per punta Licosa e capo Palinuro, è la cultura cilentana a essere una cultura di terra. Nonostante il mare, o forse proprio a causa di quello: per difendersi dalle continue incursioni di pirati e saccheggiatori, dai Normanni ai Saraceni ai Turchi, i paesi sorgevano qualche chilometro all’interno, ben arroccati sulle pendici dei monti, e spesso dando le spalle al mare per essere poco o niente visibili dalle navi. Lo testimonia il fatto che tutti gli insediamenti sulla costa sono urbanisticamente recentissimi: paesi di case tutte nuove, costruite apposta per i bagnanti, evoluzioni rapide di quattro baracche di pescatori. Una giovinezza e una sudditanza espressa con evidenza dalla toponomastica (Marina di Camerota, Marina di Ascea…) o nascosta dalla geografia amministrativa (paesi ormai famosi come Acciaroli o Pioppi, per esempio, non sono manco comune a sé ma frazioni della semisconosciuta Pollica).
E perciò quello che si mangiava nelle case, e nei ristoranti-trattoria che della cucina casalinga sono filiazione diretta (come insegna Tommaso Melilli), erano grandi zuppe di verdure, insalate di pomodori con il pane biscotto (non la frisa pugliese attenzione), minestre di cereali e legumi, melanzane in diecimila modi diversi (da quelle imbuttunate, una specie di proto-parmigiana più arcaica e – aiuto – più buona), o escamotage per rendere appetibili elementi base di per sé poco interessanti come lo stupefacente foglia e patane. E poi certo i piatti a base di carne (il cosiddetto soffritto, che non è il trito di verdure aromatiche ma uno spezzatino di pezzi di scarto, a Napoli detto anche zuppa forte), o la pasta fresca fatta a mano, piatti che in casa erano le rarità del dì di festa e i ristoranti propongono come specialità tipiche. Tutt’al più, se il pesce si affacciava in tavola, era un pesce povero e facile da conservare, come le alici (non a caso ingrediente tradizionale anche di una regione che mare non ne ha proprio come il Piemonte).
Come dicevo, le cose cambiano un po’ alla volta, prima: ricordo qualche anno fa quando iniziai a notare un cambio di passo negli stabilimenti balneari. Prima se i lidi facevano da mangiare, per sorpassare a destra la tradizione del panino con la frittata portato da casa, si limitavano a bagnare un po’ di pan biscotto servendolo con pomodori e origano, aggiungendo al limite un bocconcino di mozzarella di bufala o altri ingredienti vari e fantasiosi (dalle melanzane sott’olio alle alici marinate) ma pur sempre freddi: è la cosiddetta acquasale. Ricordo precisamente l’anno – si era già nel nuovo millennio – in cui vidi comparire uno spaghetto alle vongole, un’impepata di cozze: lo stabilimento si era dotato di cucina, e a quel punto, davanti al mare, perché non proporre semplici piatti di pesce? Flash forward a stamattina: “Vuole provare la nuova creazione dello chef, paccheri crema di zucca pecorino e cozze?” (18 euro).
Al mare è più facile, più comprensibile: il turista magari è di passaggio, o comunque ha più soldi da spendere nell’unica settimana di ferie che si fa (cambiano le persone, cambiano le modalità di vacanza). Ma quest’anno, appunto, ho notato lo stacco anche nell’entroterra: il ristorante X, immerso nel bosco, ha cambiato gestione, dice che si mangia benissimo. E che fanno? “Cucina cilentana e di mare” (insegna onesta): braciola ma anche scialatiello alla scoglio ma anche polpo grigliato tiepido su vellutata di tuberi e crostacei. Non solo la nuova gestione o il posto appena aperto, ma pure il locale storico e un po’ fané: sembra che all’improvviso tutti abbiano capito che può funzionare, e funziona.
Perché poi, e di conseguenza, puoi mettere prezzi più alti: in Cilento giuro che quest’anno non ho visto un primo a meno di 15 euro, tanto che ogni volta alzo la testa dal menu per sincerarmi di essere a casa mia e non sui Navigli. D’altra parte il turista o l’emigrante di ritorno come me, ai prezzi metropolitani c’è abituato, e poi l’offerta a base di pesce (e la qualità, bisogna dirlo) li giustificano. Certo siamo immersi in un’economia in cui ancora una spesa dal panettiere o dal fruttivendolo costano un quarto rispetto a una città del nord – e vorrei sempre vedere se oltre ad adeguare i prezzi sono stati adeguati anche i salari. Quello che succederà solo l’anno prossimo non possiamo saperlo, ma certo la ristorazione cilentana è cambiata per sempre.
Una cosa sola resta immutata, mi pare: l’abbondanza delle porzioni. Mentre a Milano ti possono arrivare nel piatto anche tre ravioli di gamberi, qua per uno spaghetto ai frutti di mare calano 150 grammi, roba che io neanche quando mi faccio una pasta aglio e olio. L’unica cosa che mi avrebbe fatto piacere vedere modernizzata, in modo tale da poter assaggiare un paio di portate senza dover ricorrere allo sturalavandino a fine cena: e invece no. Vabbè, alla prossima.