Ci sono serate in cui tutto va proprio come vorresti che andasse. A me è capitato ieri sera.
Scrivo raramente di pasti qui su Dissapore, ma questa volta –ascoltatemi– vale la pena. Il fatto è che meno di venti ore fa sono entrato a La Limonaia.
Non mi ha invitato un ufficio stampa. Non me lo ha raccomandato un pierre. Non le ho letto su un sito specializzato. Ci sono tornato perché mancavo da tanto e fonti affidabili mi hanno detto: torna da Cesare Grandi, è cresciuto assai.
[Torino: 18 ristoranti senza rivali nel 2018]
[I Cento di Torino 2019: 50 ristoranti e 50 trattorie suggeriti dalla guida]
[Le 5 piole migliori di Torino dove si mangia con meno di 20 euro]
Così alle 21 arriviamo –sono con un amico– ai margini di Torino. La zona è placida e semi-periferica. Charme: poco. Palazzi, auto parcheggiate, poco più.
Però varcando un cancello si entra in una piccola oasi. Un giardino d’inverno (che d’estate immagino si riempia di clienti), le piante, gli alberi, e poi una sorta di serra nella quale s’apre un salotto borghese, colmo di tavoli diversi uno dall’altro, lampade, quadri, oggetti, un pianoforte, casse di vino.
Una wunderkammer. Calore. Vaffangala il minimalismo nordico che va tanto di moda: pare uno di quei locali toscani anni Settanta –eleganti e casual allo stesso tempo– che ti facevano sentire a casa. Posh ma senza strafare.
Ci accomodiamo, due giovani donne gentili, professionali, sorridenti ed eleganti ci accolgono, portano acqua, vino – scegliamo uno Jacot sloveno –, grissini, focaccia e pani home made. E poi una carta che promette divertimento. Ed è cosa rara, rarissima in una città tutt’ora piuttosto austera come Torino.
Intanto, qualche amuse-bouche. Ci viene portato un olivo bonsai ai cui piedi sono due “olive all’ascolana” fatte a modo loro (delle polpettine di oliva e carne); dei fagottini farciti con acciughe al verde (mamma mia); delle tartellette di carbonara; una “scarpetta”, cioè un vasetto di ragù accompagnato da un modellino di mano che regge un pezzo di pane da intingere. Dai, forte.
Molto Celler de Can Roca. E non è che in sabaudia siamo abituati ai fuochi d’artificio dei catalani.
Poi ecco una carta di “starter”, o, alla spagnola, tapas. Noi prendiamo un gambero viola con yuzu e furikake che è squisito, con la testa tutta da mangiare (e pensare che c’è chi la scarta!); un raviolo di musetto piastrato servito con il suo brodo; una albese di coda di vitello, con bufala (e non ricordo cos’altro, aringa?); un’aringa con caviale su una crema di cipolle.
Ognuno costa attorno ai sei euro, e sono delle botte di gusto. Bello, bello.
Poi io prendo un antipasto –una salsa di sangue e cacao con sopra scampi e cuore e petali di violetta squisita– il mio amico un primo: i filindeu –dei sottilissimi capelli di pasta tipici sardi– che vengono serviti in una cocotte in cui viene versato del brodo di pecora che li cuoce all’istante; nel brodo c’è pecora e pecorino ed è un trionfo di golosità.
Quindi solo io prendo un secondo: rana pescatrice, lapsang souchong e aglio nero: ancora un piatto buono (solo magari un poco meno definito degli altri, ma buono).
Infine caffè e piccola pasticceria a gogò, raffinata, bella.
Bene, tutta questa piacevolezza, tutta questa accoglienza –le ragazze sono bravissime–, tutta questa ricchezza ci costerebbe circa 110 euro IN DUE se lo chef non decidesse di offrirci la bottiglia di vino (mi pare da 26 euro) quindi chiudiamo a 85 euro in tutto. Del resto il menu tre corse costa 35 euro (il 7, 70).
E passiamo una delle serate più gradevoli degli ultimi tempi. In un locale di periferia, che non ha ufficio stampa, pierre (che io sappia), che non invita giornalisti e opinionisti, critici o influencer ma investe tutto nelle uniche quattro cose che contano: prodotto, cucina, vino e sala.
Il risultato è che un martedì di febbraio è quasi completo. E che due viandanti come noi, finitici un po’ per caso, ne traggono una serata perfetta. Tutti così li vorrei i locali: accoglienti, divertenti, gustosi e personali.
Con buona pace dei pierre.