Gioele Dix, l’automobilista sempre costantemente …zzato come una bestia, torna sul palco dello Zelig, e stavolta se la prende con il “food”, con i ristoranti, con gli impiattamenti e con il “fighettismo”. Gioele Dix è una colonna dello Zelig – inteso come teatro e come trasmissione condotta da Claudio Bisio – un veterano dell’epoca d’oro della comicità anni ’90, quella che iniziava a staccarsi da certi schemi da cabaret classico e sketch televisivo per aprirsi a format più internazionali. A Gioele Dix si vuole bene – non solo perché ci ricorda l’adolescenza – e gli si dà attenzione quando lo si vede salire su un palco: sia a teatro, sia a casa davanti allo schermo.
Sennonché, il monologo di giovedì scorso (25 novembre) nella seconda puntata di Zelig, è una sequenza di banalità mai sentita prima. Nel video Gioele Dix si presenta come uno che è sempre in giro (essendo un automobilista, si suppone) e quindi mangia spesso nei ristoranti. Che però, ecco, non sono più quelli di una volta. Aspirano a non essere semplici trattorie, non “posti dove si va per mangiare, ma per fare un’esperienza. Un’esperienza con il food”, perché dire cibo non va bene.
Dopo aver preso di mira l’hype, attacca con un classico: “Si tratta di 5 piattini microscopici, menu degustazione 140 euro, e poi devo andare a cercare un baracchino sulla circonvallazione a mangiare un panino con la salamella perché ho un buco nello stomaco”. Una battuta che avremmo sentito (e fatto) migliaia di volte negli ultimi 30 o 40 anni, da quando cioè si è diffusa un po’ la nouvelle cuisine. E invece, se ne cade il teatro.
Dopo le dimensioni, è la volta del cibo esotico: “Con il mercato globale si sono perse quelle belle vecchie abitudini, la frutta di stagione, il piatto tipico, no adesso trovi tutto dappertutto in qualsiasi momento. Tu vai in un ristorante di montagna, una baita con il camino e il cervo appeso alla parete, e nel menu trovi lo zenzero, il mango, la papaya, il sushi, il pokè”. Mango&papaya come esempi di esotismo, e tra l’altro nominati insieme come sale&pepe, anche questo fa moooolto anni 90.
“Oppure viene il cameriere e ti dice li vuole due scampi appena pescati? Scusi come fanno a essere appena pescati che siamo a 1800 metri? Dice eh è l’innalzamento dei mari. No è l’abbassamento del cervello, del tuo cervello” (povero cameriere). Anche le diavolerie tecnologiche sono considerate una moda: “Non ordini più al cameriere ma inquadri il QR code, e perdi mezzora” (veramente ci sarebbe in giro una pandemia che sconsiglia i menu cartacei ma ok).
L’impiattamento: “Il piatto non te lo porta il cameriere te lo porta lo chef, per farti vedere come ha impiattato. Il piatto non è un piatto normale, al centro c’è una buca, piuttosto profonda, per cui il cibo, il food, se c’è è proprio in fondo. Dice eccola qua, la nostra tartare di tonno, beh più che eccola qua, eccola là, bisogna proprio inabissarsi, è un piatto per speleologi. E intorno al buco, è come un bidet rotondo, e sopra il bordo c’è tutto l’impiattamento, erbe, fiori, che tu pensi vedi che sensibili, dopo aver abbattuto il tonno gli hanno fatto la corona di fiori. In tutta questa messinscena una cosa positiva c’è: che quando arriva il tipo delle rose gli puoi dire guardi, è già passato un suo collega”.
Gioele Dix se la prende anche con i vizi e i vezzi linguistici: “Ecco il nostro piatto, il nostro pane, la nostra insalata, che uno dice se ci tenete così tanto perché sono vostri, e ce ne date così poco, la prossima volta ci portiamo i nostri”, e quindi si ritorna a ironizzare sulla scarsa quantità del cibo nei piatti. Fino al gran finale: “Ecco il nostro tiramisù destrutturato. Che sarebbe? Gli ingredienti sono nel piatto ma ognuno per conto suo e sta a lei metterli insieme. Eh no che cazzo, con tutto quello che ti pagherò, mettili tu!”
Ora: c’è solo una cosa più assurda di provare a spiegare perché una battuta dovrebbe far ridere. Ed è provare a spiegare perché una battuta NON dovrebbe far ridere. Però qui siamo sul crinale sottile tra la satira di costume e l’editoriale puntuto, tra Zelig e Gramellini, non so se mi spiego. Tant’è vero che la frase che strappa più applausi non è neanche una battuta, ma uno sfogo: “Non ne posso più di questo fighettismo dilagante!”.
Laudatio temporis acti, ironia sulle dimensioni, sopracciglio alzato sugli anglicismi. Ci sarebbe una sola parola per commentare tutto ciò, anzi due: ok boomer. E però. Mi è venuto in mente che la stessa reazione l’avevo avuta qualche settimana fa, quando un mio amico mi aveva fatto leggere una cosa satirica sulle pizzerie gourmet. Che io appena l’ho letta ho pensato: ma cos’è, un monologo comico degli anni zero? Perché è a vent’anni fa che più o meno risale la nascita della pizza gourmet, e a dieci la sua diffusione.
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Sebbene con tono più brillante, il discorso è lo stesso di Gioele. Ma essere ai nostri occhi boomer e un po’ cringe (ooooh, ancora tutte ste parole inglesi?!?) non è la sola cosa che i due pezzi hanno in comune. L’altra è: piacciono. Alla maggior parte delle persone fanno ridere. Dirò di più: la maggior parte delle persone sono d’accordo. A noi sembrano battute vecchie e discorsi superati, a loro no. E allora, non è che siamo andati troppo avanti noi gastrofissati? Dando per acquisiti certi passaggi, considerando ere geologiche i decenni, pensando che tutti sono come noi? Non è che siamo come quei politici che hanno, come si dice, perso il contatto con la realtà (e senza neanche prendere i loro stipendi, tra l’altro)? Insomma, la banalità di certi discorsi sul food, ops sul cibo, dice molto più su di noi che su chi li fa: è un problema più nostro che loro. E ora vado a versarmi un bicchiere di kombucha.