Incastrare le agende in un sabato di trasloco (mio) e di impegni personali e professionali (suoi) sembra essere un’impresa impossibile. Eppure ci riusciamo, complice la grande disponibilità di Selvaggia Lucarelli, che ha evidentemente voglia di raccontare il successo del suo ultimo libro, Il Vaso di Pandoro (edito da Paper First, in vendita a 16 euro) Un libro inchiesta sul caso Balocco/Ferragni, ma anche un’analisi sociologica, culturale ed economica dell’impero costruito da Chiara Ferragni e Federico Lucia, in arte i Ferragnez.
Era stata Lucarelli stessa, nel dicembre 2022, a sollevare i primi, pesantissimi dubbi sulla genuinità dell’operazione del pandoro rosa, legata (almeno così sembrava) a una donazione all’Ospedale Regina Margherita di Torino.
La storia oggi è cosa nota e arcinota: la beneficenza era in realtà mero marketing, i consumatori sono stati ingannati, Ferragni ha pianto ma non ha ancora ritrovato la popolarità di un tempo (e chissà se mai lo farà), e nel frattempo si è anche separata, in quello che sembra un periodo perfino peggiore di quello del mio trasloco. Se oggi conosciamo tutta la storia – che non riguarda solo gli influencer, ma anche il giornalismo, e il problema molto diffuso della mancanza di verifica dei fatti e di spirito critico – il merito è di Selvaggia Lucarelli. Da lei è partita l’inchiesta che ha portato alle indagini e questo, per un giornalista, è un risultato enorme. Un risultato che meritava di essere messo nero su bianco, pezzetto dopo pezzetto, in un libro di 250 pagine che sta andando a ruba e che rischia seriamente di essere il successo editoriale della stagione.
Nel libro c’è tanta storia di Chiara Ferragni, tantissima storia di Fedez (che Lucarelli considera una “falena” per la sua ex compagna), c’è ovviamente tanto pandoro, ma poco Balocco, che pure è co-protagonista della vicenda, ma che per tutti sembra avere un ruolo secondario. Abbiamo chiesto perché, tra le altre cose, all’autrice del libro.
Come sta andando il libro?
“Molto bene, diciamo che ha venduto molto più in tre giorni di quanto non abbiano venduto altri miei libri in due anni, ecco“.
Come mai, a suo parere, questo grande successo?
“Secondo me molti lo vivono come un dovere, una sorta di attivismo: così si spazza via il libro di Vannacci dalle librerie, no? Ma poi il fatto che sulla stampa non ne parli nessuno fa sì che stia assumendo un po’ la forma del manoscritto segreto, del manuale della nuova carboneria. È primo in classifica su Amazon da due settimane, è il mio libro di maggior successo ma è quello per cui ho ricevuto meno richieste di interviste: è normale che questa cosa incuriosisca un po’. Infine c’è il fatto che non c’è mai stata una vera contro narrazione dei Ferragnez, e forse si sentiva l’esigenza di un racconto diverso dei due, visto che fino a ora ogni cosa che facessero erano celebrati e incensati senza mai vedere uno straccio di analisi, o di critica, una lettura diversa. Alla fine però questa adulazione collettiva è stata una mia fortuna in libreria“.
Si è lamentata più volte della poca attenzione data a questo libro dai giornali: perché secondo lei? È più una mossa contro di lei o pro Ferragnez?
“In parte è un’abitudine consolidata della stampa, per cui io esisto solo quando la notizia serve a fare character assassination, a dipingermi come la strega cattiva che vive con l’unico scopo di asfaltare, abbattere, mettere nel mirino, attaccare, uccidere. Poi c’è un discorso editoriale: Paper First, l’editore del mio libro, è la casa editrice de Il Fatto Quotidiano, che a sua volta non gode della simpatia della stampa in generale, quindi credo che ci sia una sorta di unione di forze da questo punto di vista. Poi certo c’è un po’ anche la paura di innervosire la coppia, soprattutto la parte maschile, che ha ancora una certa influenza: stranamente non ho richieste di interviste dalle radio per questo libro, ed è bizzarro“.
Da come lo descrive, la deriva Ferragnez era un disastro annunciato, frutto di un modus operandi scivoloso. È così?
“Nel caso di Chiara Ferragni ritengo che di errori ce ne siano stati tanti, nel libro sono elencati in ordine sparso. Il primo è quello di non essere cresciuta allo stesso passo del suo successo: da una parte c’era la Chiara Ferragni che produceva grossomodo gli stessi contenuti che produceva quindici anni fa come Diavoletta87. Dall’altra parte c’era l’impresa Chiara Ferragni, che cresceva enormemente, non era quella dei primi giorni, cominciava a essere un’azienda con volumi molto importanti: ricordiamo che nel 2023 ha fatturato 60 milioni di euro. Ecco, Chiara Ferragni imprenditrice non è mai cresciuta, per quanto amasse dipingersi come la grande e illuminata business woman, di fatto aveva delegato tutto a Fabio Damato, che era il suo alter ego in azienda. I dipendenti raccontano che in ufficio Ferragni non ci andava quasi mai; questo significa fidarsi completamente, non avere il controllo di nulla e limitarsi a copiare la caption sotto il post del pandoro, senza avere idea di cosa stia succedendo: ecco, così il disastro è dietro l’angolo“.
Il regno del food, nel ramo influencer, è (forse) di poco inferiore a quello della moda: perché secondo lei?
“La prima Chiara Ferragni, quella degli esordi, diceva che i blogger sono le persone più vicine al consumatore finale. È una frase molto vera: la distanza tra il prodotto e il consumatore è annullata, non c’è quasi nessuna mediazione. Il cibo è qualcosa con cui abbiamo un rapporto molto diretto e, raccontato da persone che seguiamo giornalmente, diventa quasi masticato insieme alla stessa tavola. È l’esatto opposto di quegli spot algidi degli anni Ottanta: allora c’era Silenzio, parla Agnesi, oggi c’è il blogger che cerca sedersi alla tua tavola e parla con te“.
È un caso che entrambi i Ferragnez caschino proprio sul food?
“In realtà di errori ne hanno fatti tantissimi, anche in altri settori. Il fatto è che a un certo punto entrambi sono riusciti a posizionarsi su un mercato molto familiare, quello dei cibi da supermercato. All’inizio Chiara Ferragni non era certo un prodotto per quel target lì, lo è diventato insieme a Fedez, come famiglia. Una volta che hanno occupato questo segmento, che non era esattamente il loro, l’abbinamento con la beneficenza gli permetteva di nobilitare un po’ l’operazione commerciale. Come a dire: sì, finisco al supermercato come un Gerry Scotti qualunque, ma sono anche buona, sono la benefattrice che insieme all’uovo e al pandoro pensa al prossimo. La beneficenza è un’enorme, gigantesca macchina reputazionale“.
Veniamo a Balocco: qual è il ruolo dell’azienda nel pandoro gate? È vittima, complice o carnefice?
“Io credo che sia stata vittima di questo cortocircuito per cui pur di avere Chiara Ferragni in un’operazione commerciale le aziende accettavano le condizioni assurde del suo team che, ricordiamo, prevedevano per esempio che non si inviassero gli insights né alcun dato sull’effettiva conversione dei post, o che Ferragni scegliesse autonomamente la tipologia di comunicazione da fare sull’operazione commerciale. Balocco, come ha dichiarato all’Antitrust, voleva svecchiare il marchio, ed è andato avanti con lei pur rendendosi conto in corso d’opera che era un’operazione molto borderline. Nella storia tantissime campagne pubblicitarie sono state bocciate prima di uscire, per i più svariati motivi, e invece con lei le aziende dicevano sì a prescindere, senza neanche sapere quale sarebbe stato il tipo di contenuto che avrebbe prodotto, o i dati sull’operazione commerciale. C’era un invaghimento acritico, senza precedenti, nei confronti del personaggio: certo è che Balocco è una grande azienda, che a un certo punto avrebbe dovuto fare marcia indietro, nel rispetto dei consumatori“.
Sì, ma il ruolo di Balocco, a suo parere, non è un po’ troppo oscurato da quello di Ferragni?
“Sono i rischi e i vantaggi nel personal branding. Quando sei un’influencer, il brand sei tu e basta poco per fatturare molto, se sei bravo: Chiara Ferragni fatturava anche 150mila euro a post, solo mostrando lo yogurt o il cappuccino. Dall’altro il rischio è che c’è una totale identificazione del marchio con la persona, e se la persona inciampa o commette un errore cade tutto, perde totalmente la sua reputazione e vede passare il suo valore da un milione a zero in pochissimo tempo. Questo non succede con Balocco, che è un’entità astratta, e un’azienda: nessuno smette di comprare il panettone o il pandoro per una cosa del genere, al massimo basta cambiare un manager. Credo non esista al mondo un caso di inciampo reputazionale che è costato la chiusura a un’azienda. Basta pensare al boicottaggio di alcuni brand che vengono associati a Israele: qualcuno subisce piccole perdite, ma insomma, McDonald’s e Coca Cola restano in piedi“.
Ci sono altre indagini che vorrebbe fare nel mondo del food?
“Ci sono delle cose a cui sto lavorando con Lorenzo (Biagiarelli, NDR). Mi piacerebbe scrivere un libro sulla comunicazione nel campo del cibo, per capire come si sono creati casi incredibili basati più sulla comunicazione che sulla qualità, e come poi la stampa si comporti con alcuni esattamente come si è comportata con i Ferragnez. Una celebrazione continua di ogni cosa che fanno, indipendente dal valore. Uno su tutti è Gino Sorbillo, che è un po’ la Chiara Ferragni del mondo del cibo (la Chiara Ferragni pre-pandoro, naturalmente, non intendo certo dare a Sorbillo del truffatore!).
Sorbillo è una trovata pubblicitaria continua. Per certi versi tanto di cappello, ma è facilmente intuibile che lui si inventi sempre un pretesto per finire sui giornali, e la stampa invece di avere un po’ di occhio critico rilancia il contenuto furbo e va ad alimentare un fenomeno che però si regge su queste trovate a effetto che possono anche diventare un boomerang, come la famosa bomba carta. Ecco, mi piacerebbe cercare i Ferragnez del mondo del food“.