5000 locali, tra ristoranti, bar e bistrot in tutta Italia. Trentamila terreni agricoli per un giro d’affari di circa 22 miliardi solo nel 2016.
Questi sono i numeri impressionanti che svelano quanto la mano della criminalità organizzata, tra mafia, camorra e ‘ndrangheta, sia riuscita a infiltrarsi nel tessuto sano della società, mettendo radici in uno dei settori economici più strategici: il cibo.
Un mercato che, come riferisce La Stampa, non conosce flessioni, capace di procurare utili sia in periodi in cui “tira” particolarmente, come quello attuale, grazie all’esposizione mediatica e all’interesse crescente per il mondo alimentare, sia in periodi di crisi.
Per questo non solo bar e ristoranti sono finiti nel mirino delle cosche ma tutto il settore agroalimentare, partendo dal terreno, passando per i trasporti e la logistica, per finire con i locali e i prodotti che si portano in tavola quotidianamente.
Si passa dall’olio extravergine di oliva di Matteo Messina Denaro alle mozzarelle di bufala del figlio di “Sandokan” del clan dei Casalesi, dalle arance Piromalli sino al controllo del mercato della carne e del settore ortofrutticolo da parte della famiglia Riina.
Nomi tristemente noti che hanno esteso il loro raggio d’azione verso il mercato agroalimentare nazionale.
Il volume totale dell’agromafia è salito del 30% in un anno, arrivando all’enorme cifra complessiva di 21,8 miliardi di euro nel 2016, causando notevoli danni d’immagine ai prodotti made in Italy oltre a un aumento complessivo del prezzo di frutta e verdura dal terreno alla tavola, che può anche triplicare, con un notevole danno per tutti i consumatori.
Senza contare le peggiori condizioni economiche cui devono sottostare i coltivatori che vendono i loro prodotti alle organizzazioni criminali, pagati cifre irrisorie, e i rischi per i consumatori, che mettono inconsciamente in tavola prodotti che potrebbero risultare dannosi per la salute.
Bar, ristoranti e trattorie rappresentano una copertura ideale per riciclare i proventi delle attività illecite, ed è questo un altro dei principali motivi delle numerose infiltrazioni criminali nel settore della ristorazione, soprattutto nelle grandi città.
Torino
A Torino, fino ad alcuni anni fa, il Bar Italia era il luogo dove si riunivano i massimi esponenti di Cosa nostra; qui venivano trattati affari e predisposti piani di azione, come denuncia il pubblico ministero Roberto Sparagna.
E nel 2011, la Dia di Torino sequestrò una pizzeria in odor di mafia, “Regina Margherita”, dove venivano riciclati i proventi illeciti del clan camorristico Potenza-Iorio.
Mentre risulta segnalata negli atti processuali la pizzeria Il Picchio, protetta dalla ‘ndrangheta, e dove, si legge, il titolare si avvaleva di due protettori dei clan per farsi le proprie ragioni, arrivando in un’occasione a malmenare un cliente.
Milano
A Milano, invece, è stata Ilda Boccassini e denunciare come molti giovani rampolli di Cosa Nostra scegliessero di laurearsi in farmacia, a dimostrazione che il diffondersi delle organizzazioni mafiose non tralascia alcun settore, da sempre.
Negli anni ’80 uno dei settori più proficui a Milano era quello della moda, in particolare in relazione ad una catena di negozi chiamata Uba Uba, che contava 23 punti vendita in tutto il nord.
Ma anche i night club risentono delle infiltrazioni di mafia e camorra: Salvatore Morabito aveva aperto il suo “For a King”, dal nome eloquente, nel 2007, nel mese di aprile. Lo chiusero il mese dopo trovandoci dentro 250 chili di cocaina.
Sempre a Milano, pochi anni fa, venne sequestra la pizzeria biologica “Solaire” di Vincenzo Falzetta, detto “il banana”, mentre solo alcuni giorni fa la Dia di Napoli ha scoperto nella pizzeria “Donna Sophia” giri di affari milionari di dubbia legalità.
Roma
Terreni, ville, quote di società che controllano bar e pizzerie, oltre ad alcuni tra i più rinomati ristoranti di Roma, quali il Varsi Bistrot, il Frankie’s Grill, l’Augustea, la Scuderia e la Piazzetta del Quirinale, tutti sotto sequestro ad opera della Guardia di Finanza.
Un tesoro da 10 milioni di euro, nelle disponibilità di Francesco Varsi, imprenditore campano nel campo della ristorazione che grazie ad un complesso sistema di società schermo, riusciva ad occultare e riciclare ingenti patrimoni molto distanti dai reali guadagni dei locali posseduti.
A dimostrazione che le infiltrazioni criminali nel settore alimentare sono innumerevoli, ramificate, potenti e di difficile individuazione, quasi a dar ragione ad un pentito di Cosa nostra quando affermò che “dietro ogni pizzeria ci sono le cosche”.
Fortunatamente non è così, ma di sicuro le cifre delle attività criminali impongono la massima attenzione.
[Crediti | Link: La Stampa]