Secondo il canale CNN travel la cucina francese non è la migliore del mondo. Lo rivela prima dell’estate mettendo sul podio, davanti a lei, l’Italia e la Cina. Classifiche americane che lasciano il tempo che trovano, si può pensare, ma a ben guardare anche realtà come The World 50 Best Restaurants che resta la principale (seppur a volte contestata) “concorrente” della Guida Michelin non celebra con grande entusiasmo la cucina d’oltralpe. Nella lista dei 50 migliori ristoranti al mondo 2023 ne troviamo solo quattro francesi: Table by Bruno Verjus al decimo posto, Septime al ventiquattresimo, Plénitude al trentaseiesimo e La Grenouillère al quarantottesimo. Icone come Alléno Paris au Pavillon Ledoyen si posiziona “solo” al settantottesimo, mentre ha ormai raggiunto da tempo The Best of The Best Mauro Colagreco al Mirazur di Mentone.
Meglio per The Best Chef Awards che nel 2022 (la nuova edizione è prevista a ottobre di quest’anno) ha sei chef francesi su cento nei primi cinquanta: ottavo posto per Alain Passard, ventesimo per Anne-Sophie Pic, ventidueesimo per Mauro Colagreco, ventitreesimo per Yannick Alléno, ventottesimo per Julien Royer, quarantacinquesimo per Alexandre Mazzia, e poi Emmanuel Renaut (53), Arnaud Donckele (54), Bruno Verjus (60), Kélène Darroze (65).
La cucina francese
La Francia è, e resta, il paese a cui il mondo guarda per la classicità e per la formazione. E questo è universalmente riconosciuto. Non esiste cuoco dalle grandi ambizioni che non lavori in uno o più ristoranti francesi per imparare ai massimi livelli quella tecnica, quella precisione, quel savoir-farie unico che passa anche in cucina, in primis, dalle iconiche salse francesi. Del resto proprio dalla Francia è partito un po’ tutto: fu Carême (pasticcere e cuoco di alte personalità come Napoleone) nell’Ottocento a redigere la prima vera enciclopedia gastronomica, ma soprattutto a definire la successione delle portate in tavola (ponendo fine al servizio alla francese che voleva tutti i piatti portati contemporaneamente); ma a lui si devono anche i menù stagionali e proprio le salse base della cucina francese. Dopo di lui Auguste Escoffier, cuoco dei re e re dei cuochi, con la sua carriera di direttore delle cucine dal Savoy di Londra al Ritz di Parigi fu grande saucier, promotore della cucina d’oltralpe in tutto il mondo, nonché (va detto come curiosità) inventore della Pesca Melba. Il francese era (ed è ancora per tanti termini) la lingua della cucina mondiale, la Francia è un patrimonio indiscutibile di terroir che regalano vini eccellenti e materie prime d’eccezione, grandi formaggi, carni, pesci e molluschi grazie a un clima e a una vastità geografica in grado di passare dal freddo della Normandia, al ventoso oceano e al soleggiato e caldo Mar Mediterraneo.
E poi la Francia è terra di Mof (Meilleur ouvrier de France, letteralmente miglior artigiano di Francia) di cui fanno parte tanti chef riconoscibili dalla giacca con il colletto blu, bianco e rosso, di grandi pasticceri, di un orgoglio nazionale che vede lo stesso presidente Emmanuel Macron celebrare le stelle Michelin nell’ultima presentazione della guida. E la Francia è terra di mostri sacri della ristorazione mondiale come Auguste Escoffier (per partire da lontano), Paul Bocuse, Bernard Loiseau, Michel Guérard che ha posto le basi della Nouvelle Cuisine, e poi i fratelli Troisgros, Alain Chapel, George Blanc, Pierre Gagnaire con la cucina molecolare, Alain Ducasse, Guy Savoy, Joël Robuchon, Alain Passard, Marc Veyrat, Yannick Alléno, Mauro Colagreco…
In che direzione sta andando la cucina francese?
Dal paese dove impera la convinzione, condivisa da tutti, che quello che succede a tavola sia tra i fatti più importanti della civiltà, l’impressione data può essere però quella che il tempo si sia fermato alla grandezza del passato. Almeno questo è il dato di lettura estremamente semplificato che guarda alle classifiche della ristorazione mondiale. Ma è veramente così? Fermo restando l’allure di cucina da Re (la grande cucina francese acquista tutta la sua importanza sotto il regno di Luigi XIV quando il pasto stesso diventa una vera rappresentazione teatrale orchestrata dal capocameriere) è indubbio che qualcosa stia cambiando. Dopo l’alleggerimento portato avanti dalla Nouvelle Cuisine (siamo negli Anni Settanta), è in atto una nuova ricerca sulla leggerezza, sull’intensità di gusto e sull’uso di grassi vegetali per quanto riguarda, in particolar modo, le salse. Nell’evoluzione in cucina è dato molto più spazio all’uso dei vegetali come elemento principale e anche di prodotti che possono essere di origine estera, mentre permane la ricerca assoluta del bello e della qualità artistica delle preparazioni finali.
Ma questo basta per essere una cucina in grado di fare tendenza? Tecnica, sostenibilità, materie prime d’eccezione sono la base, oggi, di ogni cucina di fine dining. Occorre di più per conquistare la clientela e per dettare movimenti (come quello della Cucina Nordica, ultimo nato, ormai vent’anni fa) in grado di influenzare la visione della cucina a livello globale. Intanto c’è chi, come Rasmus Munk dell’Alchemist di Copenhagen che punta tutto sull’esperienza, spettacolarizzando il pasto e sovvertendo il concetto di ristorazione. Ci sono invece due chef d’oltralpe, Bruno Verjus (primo francese nei 50 Best) e Alexandre Mazzia, ad essere accomunati non solo dal fatto di aver intrapreso il mestiere di cuoco dopo altre esperienze lavorative (imprenditore, fotografo, critico gastronomico il primo e sportivo il secondo), ma anche di parlare apertamente di anima. “Nutrire l’anima può, a volte, avere effetti molto più potenti, molto più profondi del semplice sostenerci” sostiene Verjus; “Il trattato Sull’anima di Aristotele rivela che l’uomo diventa vivo scoprendo i cinque sensi, la conoscenza e la passione. Questo è stato il mio apprendistato, attraverso il mio territorio. È quello a cui appartengo e che voglio condividere nel mio AM” dice il secondo. Una cucina per l’anima dunque, che sia esperienza, istinto, emozione: nella ricerca ossessiva della perfezione sono forse l’umanità e l’umiltà a regalare nuove prospettive, anche in cucina.
Alexandre Mazzia
Le tre stelle, Alexandre Mazzia, le ha cucite sulla giacca (nera) dal 2021. Il suo locale, AM, si trova in una via tranquilla non troppo lontano dalla spiaggia del Prado, nell’area sud di Marsiglia. Nessuna mirabolante insegna fa capolino fuori dal ristorante: devi veramente avvicinarti alla porta di ingresso per capire che sei arrivato davanti a uno dei due tristellati della città. La “grandeur” francese qui non è di casa e forse lo si deve anche al carattere di questo chef che ha trascorso l’infanzia in Africa, nella Repubblica del Congo.
E anche se oggi è tra i cuochi più rinomati di Francia (sarà uno dei tre chef francesi che cucinerà alle Olimpiadi di Parigi 2024, insieme ad Amandine Chaignot e Akrame Benallal), il suo primo amore è stato quello per la pallacanestro: sport che ha praticato professionalmente fino al 2004, anno in cui un infortunio ha segnato la sua carriera. Reclutato dalla Villanova University in Pennsylvania, rinunciò per una chiamata tutta parigina: un posto libero in place de la Madeleine, da quel Fauchon dove all’epoca lavorava Pierre Hermé. Il suo inizio fu dunque, come accade a molti cuochi, nel mondo della pasticceria: percorso che gli ha insegnato precisione, meticolosità e rigore. Lo sport, in parallelo, lo ha educato e lo ha formato grazie all’empatia, al fair play, al gioco di squadra: caratteristiche che ha riportato nel lavoro in cucina, con la brigata, prendendosi cura dei suoi collaboratori, sempre gentile, pacato, mai sopra le righe.
Premiato nel 2023 dalla Gault & Millau con 19/20 e 5 cappelli (nel 2018 la guida lo aveva già celebrato come chef dell’anno) ha ricevuto anche il premio One to Watch Award dalla World’s 50 Best Restaurants nel 2022 e nel 2023 La Liste gli ha assegnato 96.50%, riconoscendolo tra i migliori ristoranti al mondo. Oltre che con Hermé ha al suo attivo esperienze con gradi nomi della cucina internazionale come Alain Passard, Pierre Gagnaire, Santi Santamaria o Martin Berasategui.
La cucina di AM
Da AM, aperto nel 2014, Mazzia pratica una cucina di mare e di territorio dove però è sempre presente uno sguardo attento e curioso verso il mondo. I suoi rapporti con i fornitori locali hanno un impatto significativo sul menu di AM e rappresentano la genesi di molte ricette. Jean-Baptiste Anfosso coltiva verdure in permacultura, Sylvain Erhardt gli fornisce gli asparagi primaverili, Xavier Alazard l’olio di oliva. Costantemente in contatto con i pescatori locali, Mazzia lavora con Fabian Gardon, uno dei più giovani pescatori di Marsiglia, mentre si rifornisce di spezie da Saladino a Noailles, da Romualdo, specialista di spezie indiane e da Arnaud, che viaggia in tutto il mondo per scoprirne di nuove.
La cucina di Alexandre Mazzia non è, però, immediata. E il perché è molto semplice: ti travolge, ti inebria, ti stordisce (anche) per il gioco di colori, le consistenze, le quantità, i sapori sempre inaspettati. E forse la chiave di lettura della sua cucina sta tutta lì: nel nome stesso del ristorante che è un gioco di parole tra quella francese anima (âme) e le iniziali del suo nome. Del resto, accogliere gli ospiti nella sua casa per Mazzia significa dar loro la possibilità di guardare nella sua anima. E questo si evince da profumi e sapori che richiamano il Congo, l’infanzia, ma anche prodotti fortemente legati al territorio locale: poca carne, tanto mare, il mondo vegetale nella sua completezza. Al centro di ogni esperienza culinaria c’è un signature ben preciso: un triangolo di sapori che parla di spezie, affumicato e piccante. Intrecci che collegano l’infanzia a Pointe-Noir, in Congo, a Marsiglia. Galanga, zenzero e cumino sono la miscela di spezie usata per condire e intensificare sapore, colore e gusto nei piatti. Tralci di vite, faggio, ulivo sono utilizzati per conferire delicati e differenti sentori affumicati. Il piccante è espresso dall’uso del peperoncino con cui Mazzia costruisce ponti tra i sapori: ne utilizza 45 tipologie differenti (provenienti anche dal Congo), da quelli freschi a quelli in salamoia, essiccati o in polvere.
L’ambiente del ristorante è essenziale, ma accogliente: muri in cemento, pavimento in parquet, banconi in rovere, richiami al mondo vegetale. Un’unica sala accoglie una ventina di ospiti dal mercoledì al sabato con la scelta tra tre percorsi (due a cena) composti da due, quattro o sei portate a cui il sommelier consiglia di abbinare dello Champagne che vanta un’ampia proposta all’interno della copiosa carta dei vini. Ogni piatto principale è accompagnato da cinque o sei portate satelliti (forse silente omaggio alla cucina di Pierre Gagnaire) che creano un percorso, non necessariamente contestualizzato, ma frutto di una cucina fatta di istinto. Associazioni sconosciute amplificate dalla messa in scena, dove tutto è un inno alla natura a partire dai supporti utilizzati: legno, pietra, alghe, piante. Ogni assaggio è pensato per portarti altrove, in uno spazio non definito, lontano, in un luogo senza tempo in cui pensieri e ricordi di ognuno possono essere toccati da un colore, da un sapore, da una forma. Una cucina d’istinto e molto personale che lascia alla soggettività di ognuno la libera interpretazione.
Ecco, per esempio, il Pesce di costa servito con lievito di birra tostato e acqua all’aceto di finocchio marino, oppure Alghe, patate dolci, liquirizia e bottarga o ancora il Semolino agli agrumi e fiori d’arancio, rafano e brodo di carapace con scorza d’arancia bruciata. E se il signature, sempre in carta, è quell’Anguilla affumicata ricoperta di cioccolato, è forse con il piatto di cozze, sgombro, aringhe, cocco e un condimento a base di mojito al dragoncello e succo vegetale che ha raggiunto (per me) l’apice dell’inaspettato e del sorprendente inteso per gusti, consistenze, colori, visione.
Inutile pensare di decifrare il percorso nel momento stesso della degustazione: è impossibile. Ci va tempo. Ogni assaggio è studiato per essere un viaggio nella memoria e nelle emozioni, nella sorpresa, nella raffinatezza di accostamenti inusuali, sorprendenti, come lo sono cotture, essicature o marinature. La cucina di Mazzia va vissuta con tutti i sensi, ma anche (e forse soprattutto) con quell’anima che lo chef, con la sua cucina, vuole condividere e che si apre a interpretazioni, non codificate, diverse per ognuno di noi.