Ieri ero al telefono con un’amica che si rammaricava: un locale secolare della sua Milano ha chiuso i battenti.
Motivo? A scadenza del contratto il padrone dei muri gli ha imposto un aumento dell’affitto. Portandolo a 650mila euro l’anno.
Quanto diavolo devi fatturare per pagare un affitto così? Mi son chiesto.
Nella città in cui vivo, Torino, hanno appena tirato giù le serrande due gastronomie antichissime e meravigliose.
[Aprire un ristorante: perché lo fanno tanti italiani e perché chiudono subito]
Il motivo? Lo stesso: al rinnovo della locazione si son viste alzare la cifra in maniera esorbitante.
Se le società immobiliari che possiedono gli stabili dei centri cittadini —da Trieste a Palermo, da Verona a Napoli, da Firenze a Roma— si son fatte sensibilmente più esose esiste un perché: c’è chi è disposto a dare loro cifre più alte. È il mercato, bellezza, e se arriva qualcuno che offre di più, si stappa lo champagne.
Questi nuovi offerenti sono le grandi catene, dell’abbigliamento e non: H&M, Zara, Gucci, Hermes, Prada, Tiger, Decathlon, giusto per fare qualche nome le cui insegne si vedono in giro.
Società che hanno fatturati, modelli di business e spalle tutti diversi da quelli di un singolo, per quanto rilevante, ristorante. Di cuochi-imprenditori che possono competere nell’aggiudicarsi un esercizio in una zona prestigiosa —come ha appena fatto Cracco, accollandosi un affitto siderale— c’è n’è una manciata.
[Un buon nome per un ristorante potrebbe essere “Presto Chiuso”]
Mi ritengo un liberale, e non so che cosa possa fare la politica o l’amministrazione —se riconoscere ulteriori agevolazioni mirate agli esercizi storici o alle piccole imprese— ma l’idea che nelle nostre città non ci sia più un locale come si deve mi spaventa non poco.
E per quanto sia surreale pretenderlo, pure la finanza ogni tanto potrebbe mostrare un minimo di sensibilità: rinunciare a un po’ di soldi per mantenere in vita un caffè storico invece che farci un negozio di mutande renderebbe il capitalismo un poco meno turbo.