Negli anni 2000 il movimento Farm To Table parlò. Nacque in seno ad alcuni ristoranti degli Stati Uniti, nelle cui file militavano chef e imprenditori che avrebbero impresso un’onda d’urto ai ristoranti di cui oggi sentiamo ancora il riverbero. Tra loro c’erano nomi come Alice Waters, Thomas Keller, il giornalista Michael Pollan. Dissero delle cose che al tempo risultarono rivoluzionarie e che oggi non hanno perso centralità: che i ristoranti dovevano rifornirsi da filiere sicure, dai mercati contadini con cibo fresco anche al fine di dare supporto alle comunità locali. In questa idea era già insita la possibilità che un ristorante potesse avere un suo proprio orto, idea che si è andata consolidando nel tempo e che oggi ha messo una marcia ancora più insistente. Su Dissapore nel 2014 c’era già una lista di ristoranti italiani che potevano contare su un orto proprio.
Nel frattempo sono successe almeno tre cose che hanno rimescolato le carte e dato nuova linfa a questo impulso: la prima è stata la crisi climatica e la diffusione del concetto di sviluppo sostenibile. Nel 2000 a parlarne non erano tanti come oggi e le evidenze di un fenomeno sentito come intangibile erano meno disastrose di oggi. Il secondo acceleratore è stata la nascita di riconoscimenti specifici che ponevano l’accento sulla provenienza del cibo nei ristoranti. Nel 2020 con il lancio della stella verde della guida Michelin fu chiarito che tra i meriti dei ristoranti che se la sarebbero guadagnata c’era quello di “coltivare piante e allevare animali, utilizzando metodi rigenerativi come gli orti no-dig e la rotazione delle colture intercalari”.
E poi c’è un terzo fattore, che ha implicato in modo notevole su tutta la filiera alimentare, ed è il greenwashing. Inutile dire che queste tre cose sono strettamente collegate tra di loro. Paola Buzzini su Vice ha spiegato come iniziare a riconoscere episodi di greenwashing nella ristorazione (non è strano che la provenienza dei prodotti sia un elemento insistente). Il magazine americano Eater ha recentemente pubblicato una lunga inchiesta su quello che da molti era ritenuto uno dei ristoranti più sostenibili al mondo. A guidarlo Dan Barber, che proprio del movimento Farm To Table aveva fatto parte fin dall’inizio. Ma non era la prima volta: già nel 2011 il Tampa Bay Times investigò sulle filiere di ristoranti che usavano il claim “farm to table” in modo improprio.
Insomma per farla breve, il potenziale problematico di questo storytelling è altissimo. Talvolta mettere piede direttamente nell’orto e nel ristorante può essere d’aiuto, invece di affidarsi a comunicati stampa e social network. C’è da chiedersi però chi ha la capacità di capire se un orto può davvero soddisfare le esigenze alimentari e produttive di un intero ristorante e per quello di cui manca non finisce per rivolgersi alla GDO. Ve lo dico io: non tante persone. Per tanti l’agricoltura è un tema oscuro verso il quale abbiamo perso ogni forma di confidenza nel giro di pochi anni. Il rischio è di finire a credere che tre vasetti di basilico domestico possano nutrire un ristorante che macina un discreto numero di coperti. Magari tutto l’anno.
Dicevamo che andare direttamente sul campo può essere d’aiuto. Più che a fare gli investigatori con la lente d’ingrandimento, a vedere concretamente un orto e a comprenderne le potenzialità. È quello che ho fatto durante una visita all’azienda agricola Alois Lageder organizzata dal Consorzio Vini Alto Adige. La storia comincia nel 1823, quando Johann Lageder i vini non li faceva ma li commercializzava. Furono invece i suoi figli e nipoti ad acquistare dei vigneti. In particolare Alois III arrivò a Magrè, un comune di poco più di 1000 abitanti a 240 metri sul livello del mare a sud di Bolzano, per acquistare la vecchia tenuta Lowengang dove diede inizio alla coltivazione delle vigne e alla produzione di vino. Fu poi sua moglie e il figlio Alois IV a dare all’azienda il volto odierno. Meglio ancora suo figlio Clemens, ultima generazione di imprenditori del vino Lageder, che con le sue sorelle ha raccolto la sfida del padre di trattare un’azienda vinicola in metodo biologico e biodinamico. Sia per quanto riguarda le vigne di proprietà, che quelle conferite.
Agli ultimi anni si deve un’ulteriore innovazione. Fin qui infatti abbiamo parlato di vino, che lasceremo da parte per parlare di orto. A che serviva un orto se non a “dare da mangiare” a un ristorante? È il 2016 quando apre Paradeis. Il nome non deriva come molti potrebbero supporre dalla parola altoatesina che indica il pomodoro, “Paradeiser”. Ma da un terreno che si trova alle spalle della tenuta e lambisce la montagna circostante Magrè. I vigneti Lageder coprono questo spazio considerato dagli abitanti un luogo spirituale, dove cielo e terra si toccano, al punto da ribattezzarlo “Paradiso”. Il clima è tanto caldo da permettere di coltivare non solo le vigne ma anche gli olivi, i cui frutti vengono moliti sul Lago di Garda e riportati qui, ad uso e consumo del solo Paradeis. All’interno ci sono gli spazi per la degustazione e l’acquisto dei vini, all’esterno una piazzola dove scegliere piatti che cambiano praticamente tutte le settimane.
Il Grand’Orto, ribattezzato così dalla famiglia, arriva nel 2018. È l’anno in cui viene assunto Maximilian Feichter, detto semplicemente “Max” in qualità, è lui a dirlo, di giardiniere. Lo incontriamo davanti a un cancelletto in legno da cui si vedono bene vigneti, Magrè e le montagne. Fa caldissimo, sarà per questo che, come ci viene spiegato dopo, il menu del ristorante è di ispirazione tipicamente mediterranea, “una cucina leggera” la definiscono. E così anche i prodotti che si trovano nell’orto, fatto di grandi aiuole rettangolari, un viale centrale, diversi vialetti laterali, alberi intorno e una zona in fondo apparentemente lasciata al caso sposano questa filosofia. C’è anche uno stagno: “C’era già dall’inizio, lo abbiamo rispettato e abbiamo costruito l’orto intorno” racconta Max.
“Nel 2018 abbiamo fatto il recinto, i sentieri, piantato tutto intorno gli alberi, bisognava anche portare l’acqua prendendola dal suolo, poi portare il terreno, perché in questa zona si era abbassato di oltre un metro. Questo spazio non era usato, se non come deposito di macchinari, un anno come campo di mais. Già nell’idea del signor Lageder doveva esserci un orto come quello di sua nonna. Si era fatto fare da un suo amico un disegno che aveva guardato per anni nel suo ufficio. Finché sono arrivato io” racconta Max “Adesso possiamo lavorare senza macchinari, solo a mano e con zappa. L’irrigazione è per lo più a mano. Come vedete qui, niente è perfetto. I ribes per esempio erano abbastanza brutti”.
Secondo l’approccio biodinamico che è caratteristico anche dell’azienda, ma che nelle coltivazioni altoatesine non rappresenta che una nicchia (tra biologico e biodinamico siamo al 10% della produzione se si parla di vino) le semine cominciano a marzo Aprile e finiscono intorno all’autunno, quando fa troppo freddo per lavorare direttamente sul terreno. A quel punto viene coperto con le pacciamature e si aspettano i mesi primaverili per ricominciare. Non ci sono infatti tunnel e serre. Max non si occupa solo di questo, ma anche degli animali, una scelta che è stata introdotta per “chiudere il ciclo con un nuovo elemento. Non solo per avere la carne da mangiare ma anche per portare una certa energia all’interno dell’azienda”. Alois e suo figlio Clemens volevano avere delle vacche da inserire in azienda per farle pascolare per i vigneti. Fino a quel momento c’era stata una collaborazione con un maso che gestiva gli animali. “Quando sono arrivato io abbiamo portato qui dei buoi. Oggi sono 20 e quando sono qui possono muoversi liberamente e stare all’aria aperta”.
Veniamo dunque alla questione del rapporto tra orto e ristorante. Dal canto suo Max ha una discreta esperienza in merito perché, come ci racconta, prima di fare il giardiniere lavorava nell’ospitalità. “La mia mamma ha una malga, la gastronomia mi ha sempre seguito tutta la vita ma non è mai stato il mio focus. Mio nonno allevava le pecore, per me occuparmi degli animali è stata una nuova sfida. Mio fratello lavora qui” ricorda. La difficoltà di gestire un orto per un ristorante è di avere le quantità nelle tempistiche che servono in cucina. “Questo per me vuol dire non riempire le aiuole dello stesso prodotto. Ogni settimana si lavora su pezzi e quantità piccole (anche solo 2 metri quadri) per avere sempre la freschezza che stiamo cercando. Abbiamo una bella squadra di cuochi che riesce a lavorare le nostre cose”.
Questo succede oggi, ma in passato non è stato semplice. Dal 2018 anche il ristorante ha dovuto cambiare ritmo. “È molto difficile per un cuoco che ha sempre lavorato con canali commerciali, venire giù all’orto, dire: questo c’è, questo ci sarà, ecco cosa possiamo cucinare. Lunedì scrivo una lista con le piante che ho a disposizione e le quantità. Gli anni scorsi abbiamo fatto la raccolta ogni giorno, ma era esagerato. Adesso sono 2-3 volte a settimana. Questo comporta che in teoria il menu può cambiare anche una volta a settimana” magari non si stravolge completamente, ma una buona parte “Infine c’è da sottolineare che non vogliamo avere tutto a tutti i costi. Prima dell’orto c’era lo stesso imprinting grazie alle collaborazioni con i contadini della zona. E ancora ci sono: se c’è qualcuno che fa le patate veramente buone a 1500 metri perché dobbiamo farle quaggiù. Certe volte parlando con Myrtha Zierock di Foradori le ho detto: fai tu le melanzane che sennò per avere la parmigiana nel menu devo riempire tutto”.
Nonostante quello che dice Max, l’orto è molto bello e punta ad estendersi. Non parliamo mai di quantità ma sicuramente in pochi anni è stato già fatto un grande lavoro, con un criterio preciso. Sarà poi Clemens Lageder ad aggiungere alcune informazioni, rispondendo alla mia domanda se l’orto sia stato fatto per una vera funzionalità produttiva o per un semplice vezzo: “Mia nonna coltivava già il suo giardino rispettando un metodo storico, con i cicli lunari per le potature e i preparati per il terreno. Passava tutto il giorno lì e mio padre – poi io – appresso a lei. L’idea romantica di avere un giardino qua è sempre stata nella nostra testa. È stata sicuramente una scelta emotiva” spiega. Aggiungendo “sulla sostenibilità in effetti, non lo so”.
Il ristorante ieri, come l’orto oggi è cresciuto pian piano. All’inizio destinato solo ai clienti che venivano lì per i vini. “Nel 2008 abbiamo ristrutturato tutto, considerando che siamo a Magrè, non a Bolzano. I turisti non venivano mai qua. Però anche il ristorante doveva rispecchiare la nostra filosofia. Ci piaceva avere la nostra verdura, ma non solo quella. Inoltre io credo che per un’agricoltura sana abbiamo bisogno di diversità, perché alla fine i vigneti sono sempre una monocoltura. Forse l’orto non aggiunge tanto alla diversità del vigneto, ma aggiunge tantissimo a noi come persone. Ci aiuta a distruggere il discorso della monocultura anche nelle nostre teste”.
In sintesi ecco alcuni elementi utili per tornare alla domanda: un orto può davvero sostenere un ristorante? Probabilmente sì, ma non sempre e non per tutti quelli che dicono di farlo. In questo caso non lo sappiamo e forse è anche troppo presto per tirare le somme. Parallelamente però avere come unico fornitore un orto di proprietà non è neppure necessario, perché è ugualmente importante sostenere produttori del territorio se fanno cose eccezionali molto meglio di come le faremmo noi. Del resto è anche un investimento, di tempo, di persone e di risorse economiche. Coltivare un orto a caso non ha senso, ma ha una logica se dietro c’è un approccio agricolo ragionato. Le cose si fanno più semplici se il ristorante non lavora tutto l’anno, perché in inverno un campo aperto è molto complicato, soprattutto a certe latitudini. Se il ristorante si presta a cambiare con fluidità il proprio menu, allora rispetta una logica agricola, fatta di stagionalità e microstagionalità.
Poi: avere un orto è molto più complesso di quanto sembra sui social network. Far parte di una grande azienda che si occupa da anni di agricoltura può essere un elemento di vantaggio. Leviamoci dalla testa quest’idea che chi ha un orto alla fine ha solo l’orto: non è sostenibile per l’attività e poi non sta scritto da nessuna parte che deve esserci una qualche esclusività. Essere bravi cuochi non equivale a saper usare le migliori materie prime a Km0, certe volte ordinare da un catalogo è più semplice, sicuramente più veloce. Coltivare il proprio cibo non è semplicemente “la cosa più etica che si possa fare” a dispetto di comprarlo da qualcun altro: dipende sempre con la strategia agricola (e ambientale) che decidi di attuare. Infine meglio fidarsi di chi dice “non lo so” di chi vende la sostenibilità alimentare come una certezza granitica che di certo ha poco e niente.