In collaborazione con ARTHOUSE & I Wonder Pictures.
Com’è davvero lavorare in un ristorante? Non è il mondo dorato che sembra, ci avvertono spesso gli operatori del settore, e grazie arcavolo, diciamo noi. Veramente gli chef non si aggirano con lentezza nel silenzio delle cucine, tra fornelli immacolati e collaboratori efficienti e disciplinati, con i quali c’è un rapporto di rispetto reciproco, e pongono con delicatezza un ciuffo di salicornia a completare l’impiattamento, mentre in sala i clienti ascoltano adoranti i consigli del sommelier e lasciano laute mance ai camerieri? Ma va, ma chi l’avrebbe mai detto. Lavorare non è come andare a Masterchef, la realtà non è un reality, a dispetto del nome: ma questo si sapeva.
E d’altra parte a raccontare il lato nascosto, e spesso oscuro, delle cucine, non è che non ci abbia mai provato nessuno: il capostipite, il nobile precursore di tutte le pagliacciate tipo Cucine da incubo è lui, Anthony Bourdain, con quel Kitchen confidential che all’epoca (ventidue anni fa) fece scalpore perché per la prima volta mostrava di che lacrime grondi e di che sangue ogni piatto di fine dining. Ma forse non è un caso che ultimamente, più che documentari e libri di non fiction, ci riescano serie TV come The Bear, o film d’invenzione come questo Boiling Point – Il disastro è servito, che arriverà nelle sale italiane, giovedì 10 novembre. Diretto da Philip Barrantini, è già premiato e nominato nei festival di tutto il mondo: BAFTA, Taormina Film Fest, British Independent Film Awards, Zurich Film Festival, Göteborg Film Festival.
Boiling Point non è una docufiction o un film verità, è un film-film, con attori professionisti e un copione, una dramma ben orchestrato: eppure riesce meglio di tante altre opere a riprodurre quella tensione speciale, e a tenerla alta per un’ora e mezza. Chiunque abbia mai lavorato anche solo mezza giornata nella ristorazione – vuoi in sala vuoi in cucina, dentro a una trattoria o in uno stellato – segue la pellicola con un morso alla bocca dello stomaco. Tutti gli altri, be’, possono farsi una bella idea di com’è.
L’effetto iperrealistico è ottenuto innanzitutto con una particolare tecnica cinematografica, quella del piano sequenza: c’è un’unica telecamera, che non stacca mai, e segue i personaggi muoversi negli ambienti del ristorante (e anche in qualche esterna) passando con fluidità dall’uno all’altro. Tutto il film è un’unica ripresa: bravo il regista (Philip Barantini) a gestirla con naturalezza, bravi gli attori (Stephen Graham, Vinette Robinson, Ray Panthaki, Hannah Walters tra gli altri) a recitarlo tutto di fila. Questa tecnica però – famosa per essere stata usata in capolavori come Nodo alla gola di Hitchcock – non è un virtuosismo fine a sé stesso, ma è esattamente funzionale ad alzare la tensione. Sia perché la telecamera, il nostro occhio, non sta quasi mai ferma, muovendosi per incalzare i personaggi che si agitano durante il servizio, spesso rincorrendoli da dietro, e quindi trasmettendo questo senso di affanno costante. Sia perché ha quella grana grezza e un po’ approssimativa, da documentario appunto: il fatto che non ci siano tagli, montaggi e inquadrature classiche “in posa”, amplifica l’effetto verità.
E poi c’è la trama ovviamente, la sostanza. Il primo personaggio a comparire, naturalmente di spalle, è lo chef mentre arriva in ritardo al lavoro e al contempo si scusa con la ex moglie di una mancanza di attenzione verso il figlio: una vita che da subito sembra andare a rotoli per il protagonista, ma non preoccupatevi, non può che peggiorare. Protagonista poi, certo, ma per buona parte del film si tratta di un’azione corale, con personaggi che saranno anche un po’ stereotipati ma oh, sono stereotipi con una base di verità: la restaurant manager stronza con i dipendenti e sottomessa con certi clienti, la sous chef cazzutissima che para il culo al capo di cui forse è anche un po’ innamorata, il lavapiatti fancazzista e la collega incinta che lavora per due, l’ispettore sanitario che rompe i coglioni, la neoassunta straniera che sbaglia per problemi di comunicazione, i camerieri che flirtano, lo stagista bravo ma con problemi di autolesionismo, lo chef che passa dal micromanaging alla strafottenza, e beve come un dannato. C’è molta più carne e sangue qui che in certi archi narrativi costruiti a tavolino, e che poi finiscono per assomigliarsi tutti, cuciti addosso ai personaggi reali di trasmissioni come Chef’s Table.
I 90 minuti del film coprono un lasso a cavallo tra la fine della preparazione e la prima parte del servizio: in questo tempo non solo succede di tutto, ma si ripropongono le classiche dinamiche che rendono adrenalinica, ma anche tossica, la vita (ops volevo dire il lavoro) in un ristorante. Le incomprensioni e gli scontri tra i due poli, spesso due eserciti l’un contro l’altro armati, rappresentati dalla brigata di cucina e da quella di sala. La tensione che serpeggia quando ai tavoli c’è un cliente importante, o un collega famoso, o un critico gastronomico, o tutte queste cose insieme. Il razzismo e il sessismo, spesso e volentieri impuniti. E le schermaglie e gli abbracci, le cose dette tanto per dire e i crolli improvvisi, e poi la vita, la vita di ognuno che preme da sotto, perché è vero che questo è un lavoro dove ci si annulla e al quale si sacrifica quasi tutto, ma si tratta pur sempre di persone.
A un certo punto, il film ha un cambio di passo: quando la continua tensione della presa diretta potrebbe iniziare a stancare, prende il sopravvento la trama. Il taglio episodico lascia campo a un’accelerazione, quello che sembrava quasi un documentario vira in dramma teatrale: le unità aristoteliche di tempo luogo e azione inglobano un passato e ampliano la visuale a un altrove, i dialoghi contestualizzano la storia in un continuo spaziotemporale, la vicenda si fa avvincente, i fatti precipitano. Fino al punto di ebollizione.
Chi scrive ha lavorato – se pur brevemente, se pure in condizioni tutto sommato privilegiate – in una cucina. E se potesse vi manderebbe tutti, appassionati di gastronomia o meno, a faticarci per un paio di settimane all’anno, tutti gli anni – altro che servizio civile o militare. Ma nell’attesa di prendere il potere, vi invita almeno a guardare Boiling Point.