Se c’è una lezione che mi sento di condividere, è che il mondo del fine-dining, dei ristoranti gourmet, degli chef stellati (ma quindi sono la stessa cosa Michelin e il fine-dining? O uno può veramente essere senza l’altro? Mistero) per giudicarlo devi conoscerlo. Per conoscerlo però servono i quattrini, almeno per conoscerlo bene, perché il fine-dining nasce su un grande misunderstanding: ovvero che il cibo è un bene primario e quindi deve costare se non poco il giusto, e questo il fine-dining non lo fa. In questo esatto punto si crea il corto circuito, nell’ignorare che è un altro campionato come dicono certi.
Se lo conosci, almeno un poco, oltre ai pregi ti accorgi di alcuni tic che a tuo gusto puoi amare o odiare. Magari ti piacciono i brodi versati al tavolo, le settecento portate, le ore letteralmente sequestrati su una sedia, il pane che è anche un piatto, il dolcino da portare a casa per la colazione del giorno dopo, le cose raccolte dalla nostra “farm”, il fruscio delle divise dei dipendenti, l’aperitivo iniziale che non sai mai quanto costa, il servizio continuo dell’acqua che pagherai caro a fine serata. Tutte cose che possono piacere tantissimo o fare schifo fortissimo, però ecco, le devi conoscere. Esperire. Altrimenti diventi come uno di quei boomer su facebook che commenta i piatti scrivendo: “spero che questo sia l’assaggio”.
Il Noma però in questo caso il muro del suono l’ha rotto, nel senso che a conoscerlo c’è una platea più ampia di spettatori dei suoi effettivi clienti. Nel mondo della ristorazione occidentale, tutti conoscono il Noma e tantissimi cuochi e cuoche hanno sperato di farci anche solo tre settimane di lavoro. Tra tutti i trofei gastronomici dell’élite degli appassionati di ristoranti, il Noma è sempre stato uno dei più ambiti da esibire. E così molte delle persone che conosco non hanno temuto di fare incroci folli di aerei per sedersi alla sedia di design scandindavo di Redzepi e dire quanto sia stato tutto meraviglioso e inusuale, benché molto costoso.
In questo viaggio intergalattico nell’universo dell’alta gastronomia si distingueva una visita alle cucine del Noma. Forse è improprio chiamarle cucine, forse meglio parlare di “laboratori” dato che fra un paio d’anni ufficialmente lo diventeranno. Lì dentro c’erano ragazzi e ragazze della mia età e anche più piccoli che ripetevano metodicamente gli stessi gesti per l’intera giornata. Qualsiasi giornalista ha parlato con qualcuno di loro e ha ricevuto l’immagine di un posto in cui non si lavorava bene, dove non si veniva retribuiti per campare in una città già carissima, dove gli orari erano allucinanti. A un certo punto uscì anche la notizia della famosa black list: ci entravi se te ne andavi prima della fine del tuo periodo di stage o di lavoro concordato. In generale però i cuochi e le cuoche parlano poco del Noma, forse non dovrei farlo neppure io che in confronto a una roba del genere sono come una delle formiche da servire per il menu stagionale.
Ora Redzepi ha detto che il Noma Ristorante chiuderà fra due anni (non “chiude”, chiuderà semmai) per riproporsi in una nuova veste. Non è che lo ha detto a uno qualsiasi, ma al New York Times che ha riportato la decisione in contemporanea con il sito del ristorante. “Per continuare a essere il Noma dobbiamo cambiare” hanno scritto, che fa tanto Gattopardo in quella stracitata frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Solo che da una parte c’è la fiction mentre dall’altra chissà. Redzepi aveva lanciato nei mesi precedenti vari avvertimenti per intendere che ci sarebbero stati dei cambiamenti alla sua ristretta platea: 1 milione di follower.
All’apprendimento della notizia la mia mente è volata in due direzioni: la prima è stata quella in cui Redzepi si accorgeva che con i burger si fanno più soldi che con le formiche, e con molta meno sbatta, oppure che con i pop-up si fanno molti più quattrini con il vantaggio del lavoro occasionale e dell’aereo pagato. Poi un secondo pensiero è stato indirizzato alla Michelin, alla stella verde per la sostenibilità assegnata al ristorante con contorno di dichiarazioni dello chef “Le pratiche sostenibili sono da tempo una luce guida per la nostra creatività, ma non si tratta solo del modo in cui ci procuriamo gli ingredienti o riduciamo al minimo l’impronta di carbonio; si tratta anche di creare il miglior ambiente di lavoro possibile per il benessere deinostri dipendenti.”
Questa parola, sostenibilità, che ormai ci esce dalle orecchie, richiama la sostenibilità a cui allude lo stesso Redzepi parlando con il New York Times, quando dice che l’attività per come è diventata sul piano economico è insostenibile. Pochissimi mesi fa sempre Redzepi si era preso l’incarico di dire basta agli stagisti,per sostituire i rapporti di lavoro dei suoi dipendenti con contratti a tempo determinato, pur essendo in rosso di più di 200.000 euro. Quindi ora che l’ha detto anche lui che il Noma è insostenibile, la Michelin che farà? Ritira la stella al Noma o si ritira e basta?
Di questo discorso però, sono così tante le note stonate che più che un cambio d’abito spettacolare, sembra uno strano architettamento. Prima di tutto per i tempismi: chiudere il ristorante nella sua vecchia forma casualmente nell’anno dei 20 anni di apertura dando la notizia con “soli” due anni di anticipo. Farlo dopo aver agguantato la terza stella Michelin e parecchie volte il titolo di miglior ristorante del mondo secondo 50 Best Restaurant e chissà quante altre targhe e targhette che neppure immagino. Farlo dopo due anni di pandemia straziante, con la consapevolezza che realmente i modelli di gestione del lavoro se non sono superati sono sentiti come arcaici, con diversi appigli in paesi stranieri con mercati ancora da esplorare, come il Giappone. Poi c’è questa cosa di scrivere che un modello ristorativo come quello di un ristorante è insostenibile lasciandoci con l’annosa questione: ma quindi fare un laboratorio, un e-commerce e viaggiare in 100 in giro per il mondo lo è?
A noi non resta che individuare tutti i ristoranti che hanno seguito il modello-Noma nel tempo e ripensare quanto spazio meriti seriamente all’interno del discorso pubblico una cucina che sa piegare a suo vantaggio qualsiasi principio. A tal proposito la creator Lisa Lind Dunbar ha raccolto su Instagram una sequela di post che sottolineano quale immagine tossica del lavoro e della cucina restituiscano esempi come quelli di Redzepi. Ad oggi rimane il commento meno stereotipato sul tema.
https://www.instagram.com/p/CnNsL88DI0N/