Nei suoi quattro anni di vita, la stella verde Michelin è già stata tante cose. Una potenziale colpevole di greenwashing per una guida che promuove una crapula decadente mentre il mondo cambia, un premio di consolazione per chi la stella “vera” magari l’ha mancata, fino a diventare un riferimento, questo soprattutto all’estero, per una certa scena gastronomica, che si riconosce in un determinato format culinario e in un certo sistema di valori. Quali valori siano nello specifico è ancora difficile dirlo, un po’ perché effettivamente il tema della sostenibilità può offrire molteplici punti di vista, un po’ in coerenza con lo stile Michelin che storicamente mantiene i suoi parametri protetti da un fitto alone di mistero, ma anche qui sembra esserci stata un’evoluzione con l’attenzione che in questo pur breve periodo è passata dalle energie rinnovabili all’autoproduzione, dalla rete di fornitori di prossimità alla cucina a spreco zero.
Per capire gli stilemi e il potenziale di una cucina di questo tipo, mi sono rivolto a chi la stella verde se l’è accaparrata, ma una riflessione profonda sulla sostenibilità della sua cucina la porta avanti da tempi non sospetti. Così sono andato a trovare Mirko Gatti, patron e ideologo del Radici di San Fermo della Battaglia: anzi no, patron di Àbitat, fresco di rebranding, proprio con l’idea di comunicare di più e meglio questo aspetto della sua proposta, a cui ha dedicato uno specifico percorso di degustazione chiamato “From waste to taste” (sette portate a 100€), sorta di masterclass sull’impatto che un ristorante può avere sul territorio, il tutto tradotto in un linguaggio gastronomico prorompente, che è poi sempre quello che conta quando si tratta di raccontare di gastronomica. Ce ne sono altri due, Roots, quattro portate tra i classici del ristorante a 70€, e il più ampio Taste of Nature, undici passaggi a 130€, oltre la possibilità di ordinare alla carta.
Siamo nel comasco, in un contesto, quello di un’area commerciale nella frazione Cavallasca di San Fermo della Battaglia, che non rende giustizia al progetto, ma non lasciatevi influenzare: Mirko è chef colto e intransigente nonostante il suo piglio mite, e le sue esperienze internazionali, soprattutto quelle danesi tra Relae e Noma, ne hanno fatto un autore dalla visione chiara, che merita approfondimento. E lo faremo attraverso il suo menu dedicato alla cucina circolare, un tema che lo chef affronta attraverso tre approcci principali : quello dello spreco zero, l’utilizzo di specie aliene invasive, e quello più culturale fatto di condivisione delle informazioni e formazione. Li racconteremo tutti, prendendo le mosse dai piatti salienti del percorso.
Spreco zero
Partiamo da un esempio concreto per raccontare la profondità di Gatti nell’approcciarsi allo spreco zero e come questa scelta influenzi la struttura di un menù, imponendo ispirazioni che esulano dallo squisitamente gastronomico, marchio intellettuale di uno chef-autore. Il menu si apre con una candela che, una volta acceso lo stoppino, si scioglierà, esaltando i contrasti aromatici balsamici dell’olio di ginepro e thuya, e concedendosi ad una voluttuosa scarpetta col pan brioches. È un lume fatto di grasso animale, in questo caso di cinghiale, dallo stesso animale che arriverà quasi alla fine del percorso, con la sua pancia che viene fatta fermentare in un koji di orzo e aglio nero e glassata dolcemente sulla brace. Il koji è una coltura di funghi che ha la capacità enzimatica di rompere i legami delle proteine degli ingredienti su cui viene inoculato, liberando nuovi composti aromatici -soprattutto umami- e dando di fatto nuova vita ai cibi: uno strumento di cui lo chef comasco è interprete virtuosistico e che alla base dell’impetuoso profilo sensoriale che è la sua firma.
Altro esempio della concretezza all’approccio dello spreco zero e della maestria di Mirko sull’utilizzo del miso viene dal riuso del pane raffermo, una ricerca che lo ha portato ben oltre il pangrattato. Il pane avanzato diventa substrato del koji, ma ne viene ricavata anche una shoyu, una salsa di soia che soia non è, in cui il legume viene sostituito dall’avanzo, e rinforzerà il brodo di funghi in cui vengono serviti gli gnocchetti ricavati dal pane fermentato. Non si tratta solo di “non buttare” ma di dare nuova vita a un potenziale scarto, e che vita: un piatto di una profondità universale, con un tono su tono di sapidità verticale, a cui note di tostatura e frutta secca donano ulteriore complessità. C’è un grande lavoro sulla masticazione, quella più nostrana e casalinga dello gnocco, quella quasi cartilaginea del fungo orecchio di Giuda -ulteriore stratificazione- e il boccone più tenace del bambù, che ha anche il merito di dare una sfumatura vegetale in più all’ambientazione sensoriale terragna. Una materia scelta in virtù dell’altro punto forte dell’etica sostenibile di Àbitat, quello sull’utilizzo delle specie invasive. Lo è il bambù e lo è la proteina che questi gnocchi di pane risorto accompagnano: il pesce siluro.
L’utilizzo delle specie invasive
Anche se è stato il granchio blu ad attirare l’attenzione del pubblico -almeno per una stagione- sul problema delle specie invasive, non si tratta certo di un problema recente. Ne sanno qualcosa i pescatori d’acqua dolce del nord Italia, che dalla metà del novecento se la vedono col siluro, devastante predatore introdotto per la pesca sportiva. Una materia prima imposta dalle scelte etiche di Mirko, e da affrontare da par suo: perché un conto è vedersela col bambù, un altro dare una dignità gourmet al Silurus glanis. Si parte quindi dal taglio, cercando di non ricavare le classiche baffe ma sempre tagli con osso, per valorizzare consistenza e sapore, per procedere poi con una maturazione e rifinire il tutto sulle braci, laccando con una riduzione di alghe e funghi. Il risultato è un boccone succulento, stratificato, profondo e golosissimo, e l’appellativo “ribs” rende perfettamente anche l’idea della consistenza delle carni, e delle loro omologhe suine.
Porsi dei vincoli filosofici nelle scelte gastronomiche non è un limite, se è un percorso affrontato con consapevolezza, ma può portare ispirazioni più ampie, anche in ferie. Siamo sullo Stagno di Cabras, terra d’origine della maitre Sara Pau, dove un’altra specie invasiva si impone alle riflessioni dello chef, la medusa polmone di mare. Una materia prima che negli anni è stata oggetto di molte sperimentazioni ed ha avuto svariate incarnazioni nei piatti, e il processo per arrivare al risultato attuale è passato anche dalla consulenza di un collega cinese durante l’esperienza al Noma, di cui non vi rivelerò tutti i segreti, ma include una disidratazione -non troppa, la medusa è quasi tutta acqua e sparirebbe: il trucco è soprattutto qui-, una fermentazione, un mantenimento in acqua di governo… il tutto per raggiungere uno degli obiettivi fondanti della civiltà, ovvero la conserva, la capacità di avere a disposizione una materia lontano dallo spazio e dal tempo in cui si reperisce. Tagliata a mo’ di tartare, la medusa restituisce un morso a metà strada tra una seppia cruda e un nervetto, infinitamente più succoso e iodato. Si racchiude il tutto in una pelle di pesce, ottenuta dalla particolare tecnica giapponese del Sukibiki, che prevede l’asportazione delle squame insieme al tessuto che le trattiene, permettendo alla carne di asciugarsi e di non marcire durante la frollatura, oggigiorno una tecnica base per chi ha integrato il dry aging nella propria cucina. Si rende croccante in frittura, e si ottiene una sorta di taco in cui ogni elemento sensoriale è portato alle estreme conseguenze, portandoci a immaginare un locale ideale lungo il golfo di Oristano che ci delizi con bordate di umami marino.
La cultura del zero waste
Ecco, dopo tanto meditare su cosa sia una cucina consapevole delle risorse e una torrenziale quantità di tecniche, ispirazioni e soluzioni culinarie che le hanno dato concretezza in un degustazione dedicato, è proprio il pensiero che questo immaginario locale sardo specializzato in meduse non esista a farci realizzare l’importanza dell’aspetto culturale e di condivisione. Vi abbiamo anticipato che la creatura di chef Gatti ha cambiato nome, passando da Radici, come forse lo ricordavate, ad Àbitat: un’operazione di comunicazione, certo, ma sottesa da un’urgenza, come un po’ tutto da queste parti. La necessità di passare da un’idea ferma, stabile e solitaria, ad un ecosistema, che si arricchisce con la diversità e lo scambio. Un hub culturale che prevede un calendario di corsi ed esperienze formative per appassionati e professionisti, su argomenti come foraging, fermentazione e cottura alla fiamma, l’unico modo per fare sì che le proprie scelte siano il più impattanti possibile.
Foraging al calice
Un discorso a parte deve essere fatto sugli abbinamenti al calice. L’intensità e la concentrazione di certi passaggi dalla cucina, le persistenze e le stratificazioni rendono arduo il compito di chi cerchi di accompagnare il percorso seguendo le regole della sommellerie classica. Gli appassionati di vino non me ne vogliano, ma l’ideale è affidarsi al juice paring gestito da Sara: succhi, fermentati, kombucha, non puntano all’estremo ma sono perfettamente calibrati in acidità e dolcezza, col valore aggiunto di essere un’ulteriore mezzo espressivo per il lavoro di foraging, permettendo di personalizzare al millimetro gli abbinamenti con le infinite erbe e frutti raccolti nei dintorni e poi conservati tramite essiccazione o fermentazione.
Piaccia o non piaccia, un degustazione così è fonte interminabile di stimoli e riflessioni, e fornisce una certezza: i valori che sono stati riassunti nella stella verde -per reale adesione ai valori, opportunismo o marketing ormai poco importa- possono avere forti ripercussioni gastronomiche, laddove ci sono i mezzi per valorizzarli e gestirli, ed è giusto che i gourmet prendano nota.