Non di soli ristoranti vive lo chef: differenziare, andare oltre la scuola alberghiera, essere imprenditori è fondamentale per Floriano Pellegrino dei Bros’ di Lecce, che intervistiamo per i lettori di Dissapore nei giorni che precedono la Fase 2 già famigerata per la ristorazione, fatta, per quanto ne sappiamo ora, di distanze assurde e profitti improbabili. “E che vi aspettavate”, sembra dirci tra le righe lo chef dello stellato di Lecce, “Di vivere con un ristorante?”
“Un medico che ti cura quando hai bisogno deve essere bravo, non simpatico”. Questo mi ha sempre detto mio padre, e questo mi viene in mente – soprattutto in un momento come questo – mentre intervisto Floriano Pellegrino, la metà della testa pensante e operativa (insieme a Isabella Potì) dei Bros’ di Lecce, fenomeno mediatico, prima ancora che gastronomico, degli ultimi anni in Italia.
Perché se c’è una cosa che ormai è chiara di Floriano e Isabella è che a molti non stanno simpatici. Sfrontati, sicuri di sé, troppo giovani, belli e cool per essere davvero bravi in un Paese che per cultura non sa considerare la giovinezza un valore. Di fonte a tutto questo, la loro risposta è sempre stata un gigantesco chissenefrega. Loro sono sempre andati avanti e, vaffanculo dopo vaffanculo (scusate il francesismo, ma è esattamente quello che direbbero loro) hanno costretto la Michelin a riguardare con interesse alla Puglia, hanno innovato, hanno fatturato.
Nulla è cambiato, pure se tutto è cambiato. Floriano Pellegrino sta lì, a Scorrano, e con la sua sfrontatezza tiene un occhio sul mondo, convinto che questa sarà la chiave della sua ripartenza. Ce lo racconta in un’intervista, che ci rilascia “dopo 40 giorni in cui sono stato zitto, tranne che sui social, perché non volevo cadere nel tranello di finire nel calderone”.
– Come state, tu, Isabella e il team dei Bros’?
“Alla grande”
– Scusa? Davvero?
“Sì. Nessuno dei miei ragazzi sta male, siamo in salute, abbiamo da mangiare, non dobbiamo piangere nessun morto. Più di questo, in questo momento, non saprei cosa volere. Io la vedo così: cose terribili come questa possono succedere, ho amici aquilani che hanno vissuto tragedie anche più grandi. Non possiamo permetterci il lusso di abbatterci, dobbiamo trovare delle soluzioni: il problema c’è e dobbiamo affrontarlo”
– Un sacco di ottimismo, rispetto alla media.
“Se non siamo ottimisti noi giovani chi lo deve essere? Dobbiamo dare il buon esempio, aiutare e motivare chi non ha le nostre skills. Siamo una generazione distaccata da tutto, che per emergere ha dovuto farsi il mazzo: noi la mano la troviamo in fondo al nostro braccio, nessuno ci dà un aiuto a parte noi stessi. Non a caso ce ne freghiamo della politica, perché la politica è sempre stata lontana da noi”.
– E tu cosa chiederesti alla politica?
“Non sono abituato ad aspettarmi soluzioni dalla politica. Per esempio, stavamo ragionando sui 25mila euro che si possono chiedere in prestito: è vero, il tasso di interesse è basso, ma è pur sempre un debito che non sai quando potrai ripagare. È come se ricominciassi a lavorare con una persona in più da pagare, senza nemmeno sapere se e quando arriveranno i clienti. Io chiederei invece di trovare un accordo sulle prossime tasse. Quando vedi le percentuali su numeri grossi è normale che tu ti chieda per cosa stai pagando. Ti rendi conto che per andare da qui a Santa Maria di Leuca ci impiego un’ora e mezza, perché non c’è una fucking autostrada? Ma io in un’ora e mezza arrivo a Londra! Ma la vuoi sapere una cosa?”.
– Spara.
“Io mi sono rotto delle lamentele. L’Italiano sa solo lamentarsi: sono ventinove anni che sento tutti lamentarsi, dai miei genitori agli amici al bar. Una lamentela continua, che palle. Io voglio concentrarmi sui miei progetti. Abbiamo avuto ‘sta cosa? Affrontiamola e andiamo avanti”.
– E in che modo pensate di andare avanti?
“Non abbiamo informazioni sul quando? Bene, decidiamo noi. Noi partiamo con le prenotazioni dal primo giugno. Se poi non si potrà ancora aprire, posticiperemo. Ma intanto agiamo, parliamo con le persone, comunichiamo. E poi non voglio focalizzarmi solo sulla cucina, io voglio essere un’azienda che fa food ma ragiona come mondi che sono più avanti di noi, come ad esempio la moda o il design. Bisogna avere skills diverse da quelle di un tempo: se non le hai tu, prendi nel tuo team persone che le hanno, non provenienti dal mondo della cucina. Ora vince non il più intelligente o il più bravo; vince chi attacca e non si lascia sopraffare. Chi cambia, chi ha skills varie, non solamente il fuckin’ cibo”.
– Ma come, il cibo non è al centro di tutto per uno chef?
“Bisogna rivedere il ruolo degli chef, non può essere quello di dieci anni fa: gli chef devono avere nuove competenze. I ragazzi che escono dalle scuole alberghiere non sanno nulla di management o di comunicazione: ma dove cazzo vanno? Infatti quando escono da lì devono poi fare scuole di specializzazione, se vogliono farcela e non restare ignoranti.”
– E voi cosa state facendo per andare avanti, nel concreto?
“Noi continuiamo con quello che abbiamo sempre fatto, vedi per esempio il progetto delle colombe, che è lo spin off di un progetto più grande che andremo a fare nei prossimi anni. Abbiamo venduto tutte le colombe e dobbiamo continuare così, pensando trasversalmente e differenziando il nostro business. La nostra forza è proprio nella polivalenza e nella poliedricità: noi abbiamo da subito ragionato come un brand, non solo come un ristorante, per questo vendiamo le nostre magliette sul sito. Parliamoci chiaro: se avessimo solo il ristorante ci saremmo già impiccati”.
– Sarebbe stato più facile se foste stati altrove?
“Me lo chiedono da sempre: perché non siete rimasti a Londra? La verità è che non saremmo stati coerenti con quello che siamo. Invece ora siamo qui, e abbiamo una stella come i nostri coetanei più cazzuti in tutte le parti del mondo. Noi vogliamo raggiungere il top qui, a casa nostra, non altrove. È semplice andare fuori, ma vincere qui è molto più figo, rapportandosi con le persone di tutta una vita. Tu sei il ragazzo che ce l’ha fatta e promuove il territorio, pure con tutte le difficoltà che ci sono. Perché la guerra si vince a casa nostra, ma guardando fuori. Ora più che mai bisogna ragionare gLocal: fare locale, rimanendo qui, ma avere un piede nel mondo. Io ho un team di comunicazione composto da sei persone. Sei. E due di loro, Max e Jason, stanno a New York e a Los Angeles. Noi siamo qua, ma abbiamo un piede nel mondo. Come un’epidemia in un mese arriva in tutto il mondo, così i Bros’ in un click arrivano a New York pur rimanendo a Scorrano”.
– Può esistere una fase due della ristorazione, come la stanno prospettando?
“Noi non ci pensiamo proprio: che senso ha aprire in quel modo lì? Io non sono un tuttologo, io parlo di quello che faccio io, ma se devo aprire col plexiglass e le persone preoccupate io non apro. Che mi sono indebitato per poi morire? Scusa, abbiamo parlato fino a ieri di condivisione, in queste condizioni dov’è il piacere di uscire a cena? A quel punto me ne so a casa, prendo un delivery”.
– A proposito, cosa pensi dei colleghi che hanno intrapreso la strada del delivery?
“Penso che abbiano fatto bene. Qualunque cosa, purché si agisca. Noi stiamo parlando di un settore al tracollo, se non si reagisce non sappiamo cosa sarà il domani. Io e Isa non abbiamo figli, abbiamo solo il nostro lavoro, ma tu pensa a chi ha più ristoranti, a chi ha una famiglia: è tosta”.
– Secondo te patirà di più l’alta ristorazione o la ristorazione da trattoria? Nello specifico, Bros’ o Roots?
“Purtroppo penso l’alta ristorazione, per un semplice motivo: in cucina da Bros’ ho 15-16 persone, mentre da Roots siamo in cinque. La cucina per “foodie” (a me piace chiamarla così, è più giovane e fresco, mentre la parola “gourmet” continua a mettere un distacco tra noi e il pubblico) ha costi molto alti. Le persone pensano che abbiamo ricarichi pazzeschi, e non capiscono che sono le trattorie ad averli, non gli stellati. Noi lavoriamo quasi per la gloria, tutti siamo consapevoli che dobbiamo fare altro. Invece non dovrebbe essere così, noi dovremmo guadagnare col ristorante, se no che lo apriamo a fare?”
– Di nuovo, dinamiche della ristorazione che devono cambiare…
“Sì, è questo momento di crisi dovremmo vederlo come un’opportunità per farlo. I giovani devono diminuire il gap con i grandi, e i grandi devono provare ad aumentarlo ancora di più: dobbiamo tutti aggredire gli spazi, come si dice nel rugby”.
– Ah già, il rugby. Come va la vostra squadra?
“Vorremo giocare la prossima stagione, e abbiamo un grande progetto: “Play Bros’, play rugby”. Tu sei un cuoco, vuoi giocare a rugby, vieni da noi per un anno, lavori e giochi. Esci di qua che sei un uomo migliore, hai lavorato in uno stellato Michelin, hai imparato un sport. E noi così continuiamo a interagire con il mondo, every fuckin’ day. Questa è la nostra potenza”.