Okay che corrieri e rider sono gli eroi del nostro tempo: messaggeri di felicità e bontà che alleviano la nostra clausura quotidiana; simbolo della gig economy e del capitalismo delle piattaforme; faro e avanguardia di tutti i lavoratori nella lotta per i diritti. Ma insomma, ergerli a modello, a lavoro dei sogni come fa il gioco da tavola Bagman non sarà un po’ troppo?
È in giro da poco questo gioco che funziona un po’ come il Monopoly: il tabellone però non è un mondo da girare in tondo, ma un’Italia in miniatura, da percorrere in lungo e in largo. Per visitarne le meraviglie e degustarne le bellezze? Macché: per portare pacchi. “Carica, consegna, riscuoti”: obiettivo finale? “Diventa il primo delivery in Italia”. Anzi: “Lo scopo del gioco è diventare la più ricca azienda di consegne d’Italia sfidando la sorte e prendendo decisioni da imprenditore”. Wow.
Il modello, ormai interiorizzato, è quello dell’imprenditore di se stesso, ma precario: entreprecariato, secondo il felice (?) conio di Silvio Lorusso. Dal sito di Bagman: “Il nostro corriere lavora in proprio. Insegnerà cosa significa avere a che fare con fornitori, merci, pagamenti, multe e… imprevisti!”. Non manca la strizzata d’occhio all’imprenditoria etica e alla legalità: “Imparerai che ricorrendo alle BLACKCARD (cioè al lavoro in nero, ndr.) potresti non risolvere i tuoi problemi…”.
Ora. Lungi da me il moralismo, anzi il gramellinismo. Ma i giochi, ovvero i modelli che si propongono ai bambini, sono lo specchio dei tempi. E allora se il Risiko è stato l’indiscusso benché pallosissimo protagonista dell’ultima fase della guerra fredda, e il Monopoly l’epitome della corsa all’arricchimento tramite speculazione edilizia del capitalismo maturo, logicamente ora è il turno del delivery. E sia chiaro che non me la sto prendendo con Emanuele Cancelliere, il fondatore della Torinoys srl: bravo lui a cogliere lo zeitgeist, o fortunato a farsene possedere, gli auguriamo di avere successo, con la sua idea di imprenditore.
Ricordo che qualche tempo fa avevo notato mio figlio, 5 anni, attaccato a un videogioco del tablet che sembrava stressarlo più che divertirlo: impersonava il dipendente di un fast food e doveva montare panini e riempire bicchieri di bibite il più velocemente possibile per servire vari tavoli in contemporanea, con clienti sempre più incazzati e minacciosi, che dopo un’attesa troppo lunga si alzavano e se ne andavano. Ovviamente se sei lì che ci giochi, come abbiamo fatto tutti, badi alla sostanza, a seguire le regole del videogame, e non alla scenografia, alla narrazione che fornisce il contesto. Però se ti allontani un attimo, se sei quello accanto al player, ti può venire il pensiero paranoico: non è che stanno condizionando mio figlio, che lo stanno abituando fin da adesso a essere il banconista sotto pressione di un alienante fabbrica di cibo?
È vero che quasi tutto si sta gamificando, cioè che il modello del gioco sta entrando in tutti i contesti lavorativi: è un modo alternativo e allettante per far eseguire mansioni e task sempre meglio, sempre più in fretta (consiglio di leggere questo articolo di Andrea Signorelli sulla gamification). Ma è anche vero il contrario: che il lavoro – più che i mondi alternativi e fantastici, o quelli fin troppo reali ma comunque eccezionali della guerra e dello sport – è un topos sempre più presente nell’universo dei giochi. Gamification del lavoro, jobification del gioco. Fino a che alla fine sarà tutto un unico minestrone: già prima non riuscivamo più a distinguere quando stavamo lavorando e quando eravamo in pausa; ora con lo smartworking ancora di più. Chi sa cosa ci riserva il futuro, signora mia. Ma adesso devo andare, a ordinare la cena online.