Time does matter. Il tempo conta. Con queste parole Magnus Nilsson ha terminato il suo intervento a Food on the Edge, il simposio sul cibo svoltosi a Dublino la scorsa settimana per volere dello chef irlandese Jp McMahon. Una confessione, sentita e partecipata, di fronte alle centinaia di persone che per due giorni hanno assistito, nell’Airfield Estate di Dundrum, i migliori chef del mondo alternarsi sul palco dell’evento per parlare di alimentazione e sostenibilità, futuro, ricostruzione. E proprio a lui, è toccato il discorso conclusivo, quello che ha tirato le fila, forse inconsapevolmente, di numerosi interventi incentrati su un unico fattore: l’umanità dei cuochi che si rivelano (sorpresa?) prima di tutto persone.
Nessun dramma, nessun burnout, ma tanta sincerità e voglia di condividere pensieri e situazioni comuni per provare a risolvere un problema che ha toccato generazioni di chef e che non potrà più colpire le giovani leve. Forse sono i tempi del covid che hanno cambiato le carte in gioco, forse oggi c’è una consapevolezza diversa che guarda sempre verso la sostenibilità ambientale di un ristorante, ma che ha rivolto il proprio sguardo anche su quella personale, interna al locale e alle dinamiche del team, del gioco di squadra. Dal palco ha “tuonato” Rasmus Munk, chef dell’Alchemist di Copenhagen: “Stiamo pensando, per il futuro, di lavorare solo tre giorni a settimana. La vita del ristorante che esisteva prima del covid, oggi non è più sostenibile: abbiamo costruito false realtà per anni, ed è stata una bugia. La realtà è che il modo di vivere è cambiato come lo è il nostro approccio alla vita: lo staff va pagato in modo adeguato e per farlo i prezzi dovrebbero aumentare di tre volte rispetto a quelli attuali sul mercato”.
“Bisogna prendersi cura delle persone”, ha ribadito Andrew Walsh, chef anima del “mondo” Cure a Singapore; “La cosa più importante è la fiducia” ha sottolineato Santiago Lastra, chef di Kol, il primo ristorante messicano dell’Inghilterra a ottenere una stella Michelin; “Il team è la cosa più importante per il ristorante” ha fatto eco l’italiano Paolo Casagrande, da vent’anni al fianco di Martín Berasategui: a capo del ristorante tre stelle Michelin Lasarte, oggi segue anche la direzione del Monument Hotel sotto la guida del maestro spagnolo.
Si è interrogata con una lunga e sentita lettera sul rapporto tra staff e chef anche Ana Roš che a Caporetto, in Slovenia, guida il due stelle Hiša Franko: “Con me lavorano persone che provengono da 22 paesi diversi e alcuni di questi stanno festeggiando i cinque anni di collaborazione al mio fianco. Ogni storia da Hiša Franko è unica e ogni persona ha un nome: questo sta a significare che c’è un grande rispetto per l’individuo e per il talento personale. Oggi più che mai però siamo di fronte – aggiunge – a un grande potere che si sta consolidando nelle mani dei team di tutte le cucine: le persone non vogliono più lavorare così tante ore e vogliono una retribuzione diversa. Ma chi può affrontare, con la crisi energetica e la guerra intorno a noi, un pasto che possa arrivare a costare fino a 600 o 800 euro? Questa sarà la fine del fine dining?”.
La risposta non c’è, ma la domanda ricorre nella mente di grandi chef provenienti da diverse parti del mondo, a testimoniare un problema del sistema che è sentito e che va risolto. “Si parla tanto – aggiunge Ana Roš – di gender quality ma non di age quality. Io sono una chef che lavora sempre, ma che non può essere sempre in cucina. Io voglio che la gente venga da Hiša Franko perché il cibo è buono, non per fare i selfie con me. La domanda è semplice: possiamo mancare o no dal ristorante?”. Frasi oggetto di grandi riflessioni per un sistema che non ha mai risparmiato se stesso. Frutto forse della sovraesposizione mediatica, gli chef si interrogano sul loro futuro, sulla qualità della vita. “Spesso la carriera e il ristorante hanno lasciato definire chi sono, ma oggi realizzo che non possiamo lasciare che questo accada. Quello che ci deve definire è quello che possiamo fare con le opportunità che il nostro lavoro ci offre. Cosa possiamo fare fuori dalle quattro mura del ristorante? Se non smettiamo di guardare al quotidiano, perdiamo tutto il resto: se non guardiamo cosa succede intorno a noi perdiamo delle opportunità”, racconta Matt Orlando chef californiano per anni al fianco di René Redzepi e dal 2013 alla guida di Amass a Copenhagen. Non lasciarsi definire dal proprio ristorante, guardare oltre, prendere il tempo per vivere, riconoscersi come persone, come individui.
Lo stesso Will Goldfarb, nominato nel 2021 miglior pasticcere al mondo dai The World’s 50 Best e proprietario di Room4Dessert a Ubud, racconta di come questi ultimi due anni di pandemia siano forse stati i più soddisfacenti della sua carriera: “A Bali dove ho il ristorante di soli dessert ho combattuto per sopravvivere, come è successo in tutto il mondo. Abbiamo cucinato per la comunità, ci siamo presi cura delle persone intorno al ristorante, sfamato i bambini dell’orfanotrofio e realizzato un home garden: abbiamo piantato e non costruito per il nostro progetto di EdibleGarden”. Mettere al centro la natura e le persone, gli individui. “Vogliamo tutti tornare a vivere”, aggiunge Calum Franklin, autore del bestseller The Pie Room, ma anche Executive Head Chef all’Holborn Dining Room all’interno del Rosewood Hotel di Londra. “Facevo parte di un sistema – aggiunge – in cui ero io il problema: ero maniaco dei dettagli e ho imparato a credere nel team. Sono stato in ospedale per un certo periodo di tempo, proprio quando i critici sono venuti al ristorante, ma tutto è stato perfetto: essere ossessionati dal proprio lavoro non è la soluzione”.
E si è trovato di fronte a un problema di salute anche David Skoko, unico erede maschio di una famiglia di pescatori da quattro generazioni alla guida di Batelina a Banjole in Croazia. Icona della pesca sostenibile “Prepariamo tutto ciò che una rete da pesca tira fuori dal mare, dai pesci di prima classe ai piccoli pelagici, dalle uova essiccate dei pesci, agli anemoni, agli intestini di pesce commestibili, dal midollo osseo dei grandi predatori ai gamberetti che custodiscono le nostre acque pulite”, Skoko ha vissuto storie analoghe a quelle raccontate: “Sono stato lontano dal ristorante per motivi di salute per sei mesi e tutto è andato avanti anche senza di me: bisogna imparare a guardare oltre le proprie convinzioni, a recuperare il tempo per se stessi e per le proprie famiglie”. Mai come in questa edizione di Food on the Edge, e forse mai in modo così esplicito e diretto all’interno di un simposio di cucina è stata messa al centro la figura di uno chef che prima di tutto è uomo o donna, persona. Lo ha ribadito, dicevamo, Magnus Nilsson durante l’ultimo discorso dell’evento.
Io non sono mai stata al Faviken, il ristorante di ricerca che Nilsson ha guidato per undici anni tra la natura incontaminata di Jarpen, in Svezia, diventando mecca del gusto mondiale. Faviken ha chiuso il 14 dicembre del 2019 e ora lo chef è direttore dell’Accademia Mad in Danimarca dove ha da poco lanciato il Food Planet Heroes: premio dedicato a persone che possono cambiare il mondo del food system. Il Faviken era aperto cinque sere a settimana: “All’inizio c’ero solo io – racconta lo chef – e lavoravo da solo per un tavolo da otto persone ogni sera. Alla fine del percorso eravamo venti persone per ventiquattro ospiti. Il ristorante ha avuto un successo mondiale, è sempre stato pieno anche quando ho aumentato notevolmente i prezzi per rendere tutto più sostenibile”. Ma il problema era un altro: “Quello non era un luogo sostenibile perché consumava tutti, me compreso. Gran parte dei ristoranti sono sempre sotto pressione e questo comportamento è diventato un’abitudine: guidare un team con grande leadership senza nemmeno pensare insieme alle persone però le consuma. Quel ristorante – aggiunge – sta continuando a darmi molto, ma io non ero più felice. Sapevo molto prima che avrei chiuso il locale, ma ho dovuto razionalizzarlo. Oggi il mondo richiede risposte razionali per tutto, per ogni scelta. Io credo però che le decisioni siamo prevalentemente basate sulle emozioni, ma le trasformiamo per renderle comprensibili dagli altri. Se avessi seguito le mie emozioni sarei arrivato a quella conclusione prima. Il tempo è la cosa più importante che abbiamo: dobbiamo smetterla di lavorare contro noi stessi e provare a ricordare che le decisioni basate sulle emozioni sono più difficili da spiegare, ma possono essere migliori di quelle prese con la ragione”.
Food on the Edge ha rispecchiato, ancora una volta, quello che è: un movimento internazionale legato al cibo che si ritrova in Irlanda una volta all’anno. “Un evento in cui è importante quello che succede sul palco – conclude il suo mentore e ideatore, lo chef Michelin di Galaway Jp McMahon – ma forse ancora di più quello che succede fuori dal palco dove nascono connessioni e legami che creano la grande famiglia di cui tutti noi facciamo parte”.