Una premessa: i ristoratori che in questi giorni terribili hanno attivato il servizio di delivery meritano la massima stima. Certo in un momento tanto critico per la tenuta economica dei locali e anche mentale di imprenditori e lavoratori, le consegne sono un messaggio forte: si torna a vivere, si torna a progettare, si aprono le cucine, si esce di casa, si riannodano i fili con i clienti, si rimette qualche euro, simbolico ma importante, nel cassetto. In queste settimane drammatiche nessuno guarda alla redditività o all’efficienza, ma va bene così: c’è un disperato bisogno di speranza, e il delivery dà speranza. Anche a chi lo riceve. Dunque grazie, ristoratori che fate consegne, portate cose buone e un po’ di ottimismo a casa nostra.
Riconosciuto questo, però, bisogna far chiarezza: il delivery non è affatto il futuro della ristorazione, come pur tanti vanno sostenendo. Riconoscerlo è importante, ed è importante farlo adesso, in modo da dedicare a questa attività una quantità limitata di energie: quelle necessarie per garantire il servizio nei giorni dell’emergenza, senza sprecare investimenti e progettualità che si infrangerebbero tra pochi mesi.
Il delivery non rende
Il primo motivo per cui il delivery non è il futuro è di natura economica: non esiste un modello di business che garantisca ai ristoranti di fare consegne in maniera redditiva.
Prima del lockdown i delivery che funzionavano erano sostanzialmente due: il negozietto di quartiere – la pizzeria, la piadineria il kebabbaro –, locali minuscoli con fattorini propri; i vari street food, cinesi, sushi, pokè, etnici vari che affidavano le proprie consegne alle App come JustEat, Deliveroo, Glovo & co.
Accanto a questi stava cominciando ad affacciarsi in Italia il modello delle dark kitchen, quei laboratori che, sul modello tracciato dalla ristorazione collettiva, non hanno un locale aperto al pubblico ma lavorano esclusivamente per le consegne, dedicati soprattutto a uffici e simili. Tutti i protagonisti del delivery pre-Covid avevano dunque in comune alcuni punti in comune: cibi economici, facili da trasportare, pochi costi fissi, alta marginalità. Caratteristiche indispensabili per sopportare il costo della consegna: le piattaforme di delivery pretendono circa il 30% dello scontrino, non c’è locale che possa sommare questo costo agli altri, al limite può sostituirlo, come le dark kitchen che fanno a meno di camerieri, affitto della sala ristorante con annessi consumi, pulizie e quant’altro. Ultimo ma non ultimo, i conti di un ristorante non tornerebbero mai senza la vendita del vino e nessuno ordina il vino con il delivery del ristorante: gli appassionati si approvvigionano diversamente, anche con le consegne, certo, ma dei siti dedicati.
Il costo e le modalità della consegna sono fattori che in questi giorni spesso non sono affrontati con realismo, perché nella bella atmosfera solidale e tollerante del periodo d’emergenza i i camerieri si sono volenterosamente improvvisati fattorini e i controllori, dal canto loro, hanno chiuso (giustamente) più di un occhio. Ma per quanto si possano disapprovare le condizioni applicate ai rider dalle piattaforme di consegna (in questi giorni sul tema sicurezza non hanno certo dato il meglio di sé), è chiaro che lo spazio di miglioramento per la retribuzione e il trattamento dei vettori è poco: nel contesto odierno non è possibile retribuire e tutelare un corriere di un ristorante come un dipendente senza far ricadere pesantemente il costo sul cliente, ché di conseguenza si allontanerebbe.
Il delivery non sostituisce un ristorante
Il secondo motivo per cui il delivery non è il futuro è di natura gastronomica. Che cos’è un ristorante? È quello che si mangia? Certo che no.
Il ristorante è un’esperienza, fatta sì del cibo, ma dell’accoglienza, degli arredi, della terrazza mozzafiato, degli amici con cui si brinda, della bella donna al tavolo accanto (o bell’uomo, ça va sans dire) cui offrire un Martini. Tutto questo non può essere contenuto in un box. Così come non può esservi contenuta la complessità della cucina del cosiddetto fine dining. Chi sta provando a recapitare a casa pacchetti e pacchettini da assemblare e impiattare a casa, fallirà. È chiaro a chi abbia dovuto passare una serata a sporcar pentolini mentre i familiari dicevano “ma quando è pronto?” (è evidente che un delivery NON ti deve far né lavorare né sporcare), ma è chiaro anche perché è già fallito: tempo fa ci provarono degli imprenditori torinesi – validi, non improvvisati – a lanciare un servizio di cucina gourmet a casa (si chiamava FancEat), in collaborazione con tanti locali di gran blasone, ma non funzionò e chiuse. Perché la gente, a casa, non vuole lavorare, non vuole sporcare, non vuole spendere 80 euro a testa.
A dire il vero la gran parte degli imprenditori della ristorazione ha ben chiaro che a domicilio bisogna portare “pasti pronti”, e infatti per le proprie consegne tutti stanno pensando linee speciali, più semplici e confortevoli; i grandi stellati lo stanno facendo appoggiandosi ai propri bistrot. Ma qui si pone un rovello esistenziale: esiste già un’attività commerciale che fa cucina del conforto perfetta per essere portata a domicilio, e in effetti la porta a domicilio da più d’un secolo, dalla nascita della borghesia. Quell’attività però non si chiama “ristorante”, si chiama “gastronomia”. In Italia la cucina da asporto di alta qualità perfetta esiste già, è quella delle grandi gastronomie, delle grandi rosticcerie di Torino e Milano, di Napoli e Roma, di Palermo e Trieste. Ma questa, ahinoi, è una cattiva notizia: non solo i ristoranti che volessero darsi alla gastronomia avrebbero già la concorrenza, appunto, delle gastronomie, ma quel che è peggio è che quest’ultime sono un tipo di attività profondamente in crisi e lo erano già prima del Covid. Perché? Perché vengono ritenute troppo costose. Perché la borghesia che riceveva in casa è scomparsa, schiacciata tra pochi ricchissimi coi cuochi in casa e tantissimi piccolo-borghesi come che spendono il giusto ma senza esagerare. Dunque anche ammesso che un ristoratore vedesse nel modello della gastronomia la via d’uscita dalla crisi – e sarebbe curioso: un ristoratore vuole fare il ristoratore, non il gastronomo, perbacco! – sarebbe come un mammut che per non estinguersi evolve in un dinosauro. Non una buona idea.
Il delivery non è ecologico
Il terzo motivo per cui il delivery non è il futuro è di natura ecologica. Chiunque in questi giorni abbia postato sui social un’immagine delle varie, deliziose confezioni di cui era composto un pasto gourmet a domicilio ha di certo ricevuto il commento “quanta plastica!” Delivery vuol dire: packaging. Il packaging è il nemico pubblico numero due, dopo i trasporti, dell’ambiente. Certo, ci sono i packaging ecosostenibili, ma sapete quanto costano? “Il tuo pranzo era confezionato in 9 euro di scatole ecocompatibili”, è stato comunicato a chi scrive da un ottimo ristorante torinese. Nove euro di packaging per un singolo pasto. Di tre portate. Recapitato dal maitre (diciamo mezz’ora di viaggio, diciamo un costo per l’azienda di venti euro). E poi c’è il nemico pubblico numero uno: i trasporti. In questi giorni di lockdown sembra tutto facile (si fa per dire), le strade sono vuote, girano solo i ciclisti di Glovo. Ma appena si tornerà alla normalità, con la gente tutta fuori ma sostanzialmente senza mezzi pubblici, ci mancheranno solo orde di fattorini a ingolfare le strade. E badate, non si pensi che ci sia simmetria – che i clienti che vanno al ristorante o il ristorante che va ai clienti siano due flussi uguali e contrari – perché i clienti usano i mezzi, vanno a piedi, soprattutto ce ne vogliono assai meno per garantire al locale lo stesso fatturato.
Appena potremo riuscire, continueremo a cucinare a casa e chi potrà ancora permetterselo andrà, di tanto in tanto, a mangiare fuori; e continueremo a ordinare il cinese o una piadina con le App spendendo dieci euro a testa per cenare di fronte al Campionato (quando reinizierà). I ristoranti terranno in piedi le consegne per un po’, in attesa del ritorno a una (nuova) normalità, magari ci sarà una coda lunga, il delivery continuerà a essere utilizzato come strumento di fidelizzazione, di marketing, ma diventerà velocemente irrilevante nei bilanci delle società (ammesso che lo sia mai stato).
A meno che. A meno che non succeda una cosa rivoluzionaria: che ci sia una riforma radicale del costo del lavoro. Radicale. Che renda i costi del personale – dai cuochi ai rider – meno onerosi, e renda concepibili nuovi servizi impensabili alle condizioni di oggi. Ma questa è un’altra storia. Del genere fantapolitica.