L’altro giorno avevo un assoluto bisogno di una pausa pranzo salutare. Mi dirigo dunque verso un locale specializzato in zuppe e cose leggere, ma è affollato come l’Apple Store quando esce il nuovo telefono da un trilione.
Grazie al cielo (o all’inferno) noto che alla porta accanto c’è un altro locale che propone cibi veg-bio-natur-smart-che-fan-ben e c’entro.
È una sorta di self service. E ha tutta una teoria di vassoi colmi di roba dall’aria depressa:
— broccoli in crisi d’identità;
— patate in gruppo d’autoaiuto;
— carote lesse con l’Alzheimer;
— dell’insalata appena estratta da una busta in pieno panico agorafobico.
[Ristoranti veg: sono questi i 10 migliori d’Italia?]
Uscirei anche, ma ormai la cameriera m’ha adescato decantandomi le virtù di una sbobba: non la sto ascoltando –sono ancora sotto shock– ma direi che è mastice per serramenti.
Bon, alla fine il mio vassoio viene riempito con:
— una zuppa di patate e porri che ha grandi grumi catarrosi;
— un hummus scondito che pare argilla;
— delle verdure lesse e depresse, sicuramente vittime di abusi.
[Perché ai vegani, che hanno fatto una scelta, piace comprare la carne finta?]
Siedo, attacco il mio pranzo e d’improvviso mi sento triste come un condannato a morte. Ma un istante dopo, la mestizia volge in rabbia: è mai possibile far da mangiare così male? In più distruggendo la reputazione del meraviglioso mondo vegetale?
Con la scusa del bio-veg-smart s’è messa in attività un sacco di gente che doveva proprio far altro.
[Cosa c’è di etico nella dieta dei vegani?]
Bisogna fermarli, perbacco: rovinano la reputazione dei locali –finalmente non c’è solo più Pietro Leemann, penso al torinese Antonio Chiodi Latini, senza volare fino ai Crippa o ai Redzepi– che con le verdure fanno meraviglie.
“Ristorante vegano” non significa niente, né in bene né in male. Prima di tutto un ristorante dev’essere buono. Poi se è pure vegano buon per lui.
Se invece si mangia di m***a, lo può gestire pure Gandhi redivivo ma col cavolo (lesso) che c’entro.