Il fine dining è morto o forse no, gli italiani non consumano più per molte ragioni una più infelice dell’altra, e i ristoratori che vogliono sopravvivere devono trovare soluzioni, creative e in fretta. Il consueto articolo sulle considerazioni per il nuovo anno non poteva arrivare in un momento più sfidante per il mondo gastronomico, in cui l’unica certezza è che il 2025 non potrà che essere un anno di grandi cambiamenti. Proviamo a intercettare qualche trend, alcuni più futuribili e altri già in essere, per capire cosa ci aspetterà, tra previsioni e desideri personali.
Futuro tostato
Col senno di poi, non sembrava neanche questa grande idea: se invece di usare pane in cassetta all’ammoniaca e salumi e formaggi plastificati si prende un buon pane, grandi prodotti -e si aggiungono pornografiche quantità di burro sulla piastra- anche uno spuntino senza pretese come il toast può avere dignità gastronomica. Non che prima di quest’anno non esistessero già toast di qualità ma, si sa, per diffondere veramente un’idea serve un promotore in vista, e in questo caso ci è voluto l’intervento del mefistofelico oste piacentino Giacomo Pavesi.
Unendo le forze con nientemeno che Davide Longoni, che ci mette uno shokupan da antologia, ha risolto l’equazione, riportando a casa la deriva nipponica partita con la diffusione dei katsu sando, e mutuando l’utilizzo proprio del pane al latte giapponese. Almeno a Milano il toast sembra essere destinato ad essere il nuovo hamburger, e aspettiamo di vedere se la cosa resterà intelligente e golosa o se porterà a distorsioni perverse.
Cocktail e pizza
In principio, e in periodo decisamente non sospetto, fu Dry a Milano, ma in tempi recenti l’accoppiata tra pizza e cocktail sembra aver preso sufficiente piede da rimpiazzare quella sempiterna con la birra, quantomeno nelle pizzerie più ambiziose, che le si voglia definire gourmet o no. Tra locali di pizza che si dotano di banconi (e bartender) degni di un bar da albergo di lusso, e locali di cocktail che specializzano la loro offerta food con quella dei lievitati, la tendenza è ormai diffusa in tutta la penisola, e sta forse ridefinendo il mercato del mangiare fuori.
Una pizza, o anche un percorso degustazione, con topping ricercati quanto i piatti di uno stellato, accompagnata da grandi drink, dimostra di poter essere un’esperienza di lusso, con un conto finale ancora lontano da quelli del fine dining nell’epoca -ormai apparentemente lontana- del pre-rincari. Magari sarà questa la chiave interpretativa che farà finalmente cedere la Michelin a illuminare qualcuna delle nostre pizzerie con una stella, al netto delle lapalissiane dichiarazioni del direttore Sergio Lovrinovich.
I nuovi format
A proposito di sconvolgimenti nel mercato, l’offerta è ormai sempre più polarizzata, con il fine dining vero e proprio sempre più appannaggio dei soli abbienti. Con il potere d’acquisto dell’italiano medio sempre più in calo, la ristorazione è obbligata a correre ai ripari, per non perdere il pubblico degli appassionati che, pur rinunciando sempre di più agli stellati, cerca comunque qualità, sia nel piatto che nel calice.
C’è chi si concentra sul vegetale, chi rinuncia alle sovrastrutture e offre preparazioni semplici (e vini ovviamente naturali) al bancone, chi recupera piatti e stilemi casalinghi in un fiorire di nuove osterie ispirate alle nonne, chi alleggerisce l’offerta anche in un’ottica di maggiore sostenibilità umana del mestiere di ristoratore, chi esplora nuovi/vecchi luoghi di aggregazione come i mercati coperti. Se il format delle enoteche/bar con piccola cucina ad alcuni può già sembrare inflazionato, è solo la punta dell’iceberg del cambiamento di un mercato in cui ci sarà sempre meno spazio per emulazione e improvvisazione.
Di nuovo pizza: gli stili
Se una volta l’unica differenziazione era pizza al trancio, da asporto, e pizza tonda, seduti, ormai la scena pizzettara sembra matura per ammettere che c’è altro. Napoli e Roma, ok, con la capitale che ora vanta anche una sua tonda (no, la pinsa non va considerata), ma anche a Milano ora c’è chi propone la pizza locale, il trancio milanese, con orgoglio, consapevolezza e qualità. Aggiungiamoci anche uno stile veneto, che non verrà mai riconosciuto come tale ma che tutti conosciamo, pizza alta e alveolatissima, già divisa in spicchi, lo stereotipo della pizza gourmet. È arrivato il momento di riconoscere che nella pizza si stanno finalmente delineando degli stili regionali riconoscibili, e questa ricerca non potrà fare altro che proseguire quest’anno. Negli Stati Uniti questa è la norma, e a noi farebbe solo bene, con buona pace di continuerà a denunciare supposti reati di lesa maestà.
Basta bistecche
L’improvvisa moda delle carni esotiche ed ultra marezzate ha creato diversi cortocircuiti nei consumatori carnivori, soprattutto nei maschi alfa del “sotto le quattro dita è carpaccio” che si percuotono il petto guardando Giorgione.
Il primo è sicuramente il voler consumare a tutti costi bistecche da un kilo e tre etti anche di carni con quantitativi di grasso intramuscolare ben oltre le nostre abitudini, l’altro il fiorire di locali specializzati, bisteccherie evolute con braci e celle di frollature in bella vista. Intendiamoci, non si discute la qualità delle proposte e non stiamo facendo nessuna considerazione sul veganesimo, ma gastronomicamente dubito si sentirà la mancanza di un altro ristorante in cui, dopo tartare, carpaccio o patanegra, accompagnare la bistecca con patate cotte nel grasso del Wagyu. Un po’ più di fantasia, suvvia.