Fingiamo che basti selezionare i due piatti migliori mangiati in una stagione per capire dove sta andando l’alta cucina italiana. Una domanda che chi lavora in questo settore si pone periodicamente, e che ha molte risposte diverse, spesso tutte sbagliate. Prevedere i trend, in effetti, è particolarmente difficile. Si può analizzare lo stato dell’arte, però, per capire che aria tira. Se dovessi farlo basandomi sulle esperienze gastronomiche fatte quest’estate, avrei un’idea precisa. L’alta cucina italiana sta andando – ancor più del passato – verso la vera tradizione popolare, quella povera, quella casalinga, quella che suona degli stessi gusti della cucina della nonna.
Lo so, è un concetto trito e ritrito. Quante volte abbiamo sentito gli chef raccontare di come si ispirassero alle ricette di casa, o di come abbiano imparato a cucinare fianco a fianco con mamme e nonne, e tentino di riportare quell’atmosfera nei loro piatti? Innumerevoli, in effetti. Il fatto è che però poi, nella sostanza, questo si è sempre tradotto molto poco nei menu proposti. Nulla di più di un’ispirazione, spesso un semplice storytelling, che poi alla fine si traduceva in menu ricercati e complicati, con materie prime e tecniche che le nonne mai avrebbero nemmeno conosciuto.
Ora, forse, le cose sono realmente cambiate. Complice sicuramente una certa crisi dell’alta ristorazione, sia in termini di capacità (o volontà) di spesa del cliente, sia in termini di richiesta contenutistica. È un fatto – ve lo confermeranno molti ristoratori e chef di quella fascia – che il pubblico sembra essere meno ben disposto verso le cene troppo dispendiose, e verso le preparazioni troppo elaborate. Non a caso, ad avere più fortuna, sono i format apparentemente semplici e molto comprensibili, come Condividere a Torino.
Personalmente, se ho notato un cambiamento (e sì, l’ho notato) è non solo nell’attitudine alla cucina di alcuni chef, ma anche nel racconto di un’idea diversa di contenuto. E non può essere un caso se i due migliori piatti che ho mangiato quest’estate, frutto del lavoro di due giovani e promettenti chef del panorama nazionale (i più promettenti? Sarà il tempo a dirlo) si somigliassero così tanto.
Entrambi poverissimi, entrambi carichi di gusto, entrambi davvero ispirati alla tradizione popolare delle nonne. Il primo dei due è il Mischiato Potente dello chef Marco Ambrosino, uno dei piatti centrali di un bellissimo percorso degustazione carico di significati che propone nel suo Sustanza, ristorante nascosto (e per questo ancor più sorprendente) in una galleria nel cuore di Napoli.
Il secondo è invece la Zuppiera di pasta e pesci dell’Adriatico che Davide di Fabio, allievo di Massimo Bottura, propone nel suo ristorante pop-contemporaneo con vista sul mare di Gabicce Mare.
Due paste mischiate, come si faceva una volta, che riportano in tavola la centralità tutta italiana del primo piatto, quello a base di pasta secca: ecco, è lì che sta la vera cucina della nonna, ed è lì che sta avvenendo la rivoluzione (iniziata parecchio tempo addietro da Antonino Cannavacciuolo, in questo senso).
Il Mischiato Potente di Marco Ambrosino
Ed eccolo lì, il Mischiato Potente di Marco Ambrosino, a dimostrare quanto si possa rendere complesso ma facilmente codificabile un piatto di pasta. Uno dei piatti più convincenti e identitari di un menu degustazione che celebra il Mediterraneo (indimenticabile in questo senso anche la sua Pecora, e Dio solo sa quanto per me sia facile dimenticarmi di un secondo), il vegetale, il coraggio dei sapori senza mezze misure.
Ma anche la cucina semplice, quella di una volta, che si ritrova esattamente uguale a se stessa – pur con variazioni notevoli nella tecnica – in questa piccola zuppiera di pasta e verdure. “Dal punto di vista tecnico c’è innanzitutto un approfondimento sulla pasta come “materia prima”, lavorando sulla cottura meno invasiva possibile attraverso la sola bollitura senza ulteriori passaggi di calore, come la mantecatura in padella con l’aggiunta di grassi“, spiega lo chef.
“I condimenti vengono aggiunti in un secondo momento quando la pasta perde temperatura e reagisce in maniera diversa all’assorbimento e alla degenerazione degli amidi. Il concetto è quello di utilizzare la pasta come una proteina animale. La scelta della pasta mista è funzionale a questo scopo e porta con sé anche il rimando storico alle paste di sussistenza ottenute dal recupero degli scarti di produzione. Le cotture imperfette dei diversi formati sono parte fondamentale del piatto“. Così la pasta mischiata crea quel gioco di consistenze che si ricerca in altri piatti, senza badare al fatto che nelle nostre case c’era già, quando si mescolavano in pentola i piatti di pasta avanzati per non buttare via nulla. E poi ci sono le acciughe sotto sale , che un tempo “svolgevano il ruolo di insaporitori di cibi umili”, dice lo chef. “Una sorta di dado da brodo ante litteram in grado di trasformare pietanze povere e spesso anche poco appetibili in cibo piacevoli, soddisfacenti, funzionali alle dure giornate di lavoro“.
La Zuppiera di pasta e pesci dell’Adriatico di Davide di Fabio
In cima a Gabicce Monte, in una terrazza vista mare di quella che un tempo era una ex balera trasformata oggi in un ristorante di design, trova spazio la godibilissima cucina pop di Davide di Fabio.
Una cucina di pesce, in cui però sono i primi piatti di pasta a colpire più di tutto. Per gioco, per piacevolezza e per ricercatezza. I paccheri al sugo in cui le susine si sostituiscono ai pomodori, per dire, o i tonnarelli cacio & pepe senza cacio ma con pinoli e alici. Due piatti wow, ma non i migliori in carta. Perché il clou della cena arriva in una zuppiera da condividere, piena di pasta mista (arieccola) e pesci dell’Adriatico, in una proporzione che sa di mistico e che rimanda alle tradizionali Virtù teramane, che le signore di un tempo facevano nel mese di maggio scambiandosi ingredienti diversi di casa in casa. Sette tipi diversi di pasta, sette tipi di legumi, sette tipi di pesci.
“Un piatto che parla di responsabilità, di recupero, di rispetto delle materie prime del mare“, spiega lo chef. E di tradizione, quella vera, aggiungiamo noi. Senza troppi fronzoli, ma con tanta attenzione, pazienza, cura. Proprio quella che ci mettevano le nonne.