Una vita scrivendo di cibo in giro per il mondo. Un’altra da ristoratrice a Donnalucata, frazione marinara del comune di Scicli nel ragusano, con poco più di 3.000 abitanti. Se è vero che “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, quello di Roberta Corradin per il mangiare bene non se n’è mai andato, ma ha semplicemente cambiato forma. Chi l’avrebbe mai detto che, dopo tanti anni fra Torino, Milano, New York, Parigi e Roma, questa food writer di successo internazionale avrebbe messo nuove (e ancor più profonde) radici in Sicilia? Di certo non lei.
La sua storia personale merita sicuramente una piccola digressione. Nel 2010 le viene commissionata una recensione del ristorante “Il Consiglio di Sicilia”, nella modesta Donnalucata. Conosce Antonio, il proprietario e lo chef, che un giorno la invita a fare un giro sulla sua nuova moto. Lei accetta e un anno dopo la coppia è già sposata. La collaborazione con Antonio ha letteralmente rivoluzionato il ristorante e anche la sua vita quotidiana. Roberta ha infatti smesso di girare il mondo, ma ora è felice di dare il benvenuto a chi da tutto il mondo viene a visitare (e recensire) la sua attività.
“Felicità” è la parola d’ordine di questo accogliente ristorantino di mare aperto nel 2008. A guidarlo oggi sono le mani sapienti di chef Antonio Cicero, la cui cucina parla di territorio e di alta qualità, posizionandosi al di là di qualunque tendenza del momento, e appunto il sorriso di Roberta Corradin, guida esperta che insieme al team – di sole donne – si muove tra cucina, sala e gazebo facendo tesoro della sua vita passata in una nuova differente avventura. Col cibo, ovviamente, sempre protagonista.
Quali sono dunque i cinque segreti per un ristorante felice? Non potevo che chiederlo alla stessa Roberta Corradin, critica enogastronomica e autrice di numerosi volumi nel settore che è improvvisamente passata dal raccontare i ristoranti degli altri al suo.
La felicità degli ospiti
Il “Consiglio di Sicilia” è il primo ristorante fondato sulla felicità, e lo è, se non da sempre, sicuramente dal momento in cui ho sposato l’avventura di Antonio (oltre ad Antonio stesso). Tengo molto a ricordare che la parola felicità deriva da una radice indoeuropea che indica lo stato di assoluto benessere del neonato che si è appena nutrito succhiando il seno della madre. La prima felicità che ognuno di noi prova nella vita è gastronomica. Il mio sogno di avere un ristorante, che avevo espresso nel mio libro “Le cuoche che volevo diventare” del 2008 (tempi non sospetti), deriva proprio da questa consapevolezza, che sono felice di avere infuso a tutta la squadra. A “Il Consiglio di Sicilia” sappiamo che ogni giorno, ogni sera, lavoriamo sodo per costruire ricordi del tempo che i nostri ospiti passeranno con noi. Ce la mettiamo tutta per far sì che siano ricordi grati, e felici.
La felicità dello staff
Antonio e io riteniamo imprescindibile che la felicità e il benessere siano condivisi nella squadra. Facciamo tutto il possibile, e anche di più, per dare ai ragazzi turni che permettano una certa qualità della vita, per dare stipendi che oltre a compensare un lavoro svolto consentano serenità a chi li percepisce, e soprattutto per coinvolgere ogni singola persona che lavora in squadra con noi, anche nel caso che lavori per una sola stagione, nella realizzazione di un progetto comune. Siamo convinti che creare questa condivisione dia un senso più alto, profondamente etico, a un lavoro che altrimenti rischierebbe di essere solo fatica. Siamo convinti che riempire di senso ogni azione possa talvolta farci scambiare per pazzerelli, ma poi vediamo la risposta e la partecipazione della squadra, e siamo felici di esserne i leader.
Il servizio umano
Non sopporto, ma in generale in nessun ristorante, tanto più quando lo staff è giovane, la falsa equivalenza tra professionalità e freddezza. Ragazzi, lasciatevelo dire da una matura signora: il servizio non può esser legnoso! Servono più calore, più umanità, più genuinità, più vicinanza al nostro ospite.
No alla cucina egotista
Non sopporto, ma in generale in nessun ristorante, neanche la cucina egotista che distoglie il piatto dall’ingrediente e dal territorio e lo rapporta all’esagerato ego dello chef. Una delle cose più belle, più commoventi, che hanno scritto di noi, è che a “Il Consiglio di Sicilia” vestiamo di eleganza la semplicità. Think simple, act (and cook) elegant.
Saper imparare dagli altri
La nostra carta dei vini è ispirata a quella di Henry Bishop, sommelier de “La Spiaggia” a Chicago, il cafè blanc al “Tawlet” di Beirut. Imparare a memoria i nomi delle persone prenotate, ispirato al servizio first class di Cathay Pacific. L’approccio friendly e accogliente si rifà a “Oasis Sapori antichi” della mitica famiglia Fischetti e dalle sorelle Ricci di “Al Fornello da Ricci”. Il british sense of humour ispirato dal proprietario di “Jewel Bako” a New York. La resistenza alle mode culinarie e all’inginocchiamento davanti all’ingrediente dalla magica mano di Dora Ricci, mamma di Antonella e di Nadia Santini di “Dal Pescatore”. La leadership è ispirata ad Angela Tinari di “Villa Maiella”, più che una chef, un capitano di vascello. La complicità è ispirata a Bruna e Marcello Spadone di “La Bandiera”. Meglio fermarci qui, o potrei continuare per due pagine e oltre.
Cinque osservazioni che a “Il Consiglio di Sicilia” non restano semplici moniti o avvisi per il personale, ma trovano concretezza in ogni singolo gesto. Di Roberta, di Antonio, di tutto lo staff. E, se vi steste chiedendo se questo ristorante mi abbia reso più o meno felice, la risposta è: “Assolutamente sì”. L’ho scoperto, provato e assaporato nel profondo lo scorso giugno, apprezzandone molto la filosofia, la carta vini emozionale (scritta rigorosamente a mano), la cucina semplice ma ben presentata e coerente col territorio. Su tutti, sicuramente gli Spaghetti con vongole e tartufo nero di Palazzolo, la Seppia sporca e il Cannolo del Wall Street Journal con ricotta vaccina, ribattezzato così dagli stessi ospiti del ristorante dopo essere stato citato sul noto quotidiano americano. Ma anche la location elegantemente familiare e l’esperienza più in generale, con uno scambio continuo fra cucina, arte, vini, fotografia e persone di ogni parte del mondo. La ciliegina sulla torta? La visita finale a “La Grande Sete”, enoteca sui generis, sartoriale e situazionista aperta da Antonio e Roberta proprio davanti al ristorante, dove ogni vino viene associato a una determinata lettura italiana e internazionale proprio in base alle emozioni che entrambi riescono a generare in chi li beve/legge.