Hekfan, nuovo ristorante cinese a Milano specializzato nella cucina di Hong Kong, ci mostra come la critica sia finita. Morta e sepolta. “Perché dovrei farmi dire da qualcuno cosa è buono e cosa no?”, polemizzava ironicamente un mio amico, peraltro uno colto e intellettuale, durante una recente discussione sul tema. Se ne lamentano anche nei circoli letterari e musicali, se ben percepisco l’umore, dove verso la critica militante prevale il disinteresse, la noia, il discredito. Ma la critica gastronomica ha trovato una formidabile soluzione a questo pantano all’apparenza insolubile. Ha essa capito infatti che nessuno ti può dire cosa è buono e cosa no, a parte l’unico che ha il titolo e l’autorità per farlo, perché lui solo sa perfettamente di cosa si parla: naturalmente lo chef stesso, possibilmente supportato da un ottimo ufficio stampa. Dunque se tutti gli articoli, forse una decina, apparsi finora hanno nel titolo una tra le possibili permutazioni di queste quattro locuzioni – “Hong Kong”, “fine dining”, “gourmet”, “alta cucina” – non c’è da stupirsi, saranno le sagge parole dello chef e dello staff, diligentemente riferite.
Certo, l’alta cucina che si auto-definisce tale già qualche piccolo sospetto lo genera; non so, immaginiamo in un’insegna incisa a mano nel legno, con un tocco artigianale a contrastare la vista del reattore nucleare li dietro: “Noma, danish fine dining”. Una roba che non esiste e non potrebbe mai esistere. Dunque parlando di dubbi, i noodles fritti in salsa di pepe nero con verdure si tengono sollevati in aria da soli, da una mano immaginaria che regge le bacchette sospese. Un virtuosismo degno del miglior fine dining da cenone di capodanno in hotel di montagna all-inclusive, correva l’anno 1984 o giù di lì. Il sapore, un indistinto e generico gusto mensa.
I bocconcini di maiale caramellato in agrodolce sono serviti su una cupola di ghiaccio. Ho sentito spesso dire da grandi gelatai che il gelato si può fare praticamente con tutto, meno che con la carne; e a dire il vero l’effetto è un po’ straniante. Però la composizione è legittima, esiste in una serie di declinazioni in Cina e in Malesia oltre che naturalmente a Hong Kong. Sembra che lo stupore di spirito e sensi venga in conseguenza dello shock termico tra l’interno dei bocconcini ancora fumante e vaporoso e la crosta esterna, vetrificata nella sua gelida croccantezza. Insomma, è quella stessa sensazione che ti innescava il delirio quando il gelato fritto al ristorante cinese riusciva bene, quella volta su dieci a dire il vero, correva sempre l’anno 1984 o giù di lì. Nel 2022 da Hekfan però l’incantesimo non riesce, perché i bocconcini di maiale, oblunghi e dolciastri, sono freddi sia dentro sia fuori, ricordando forse le barrette di Mars conservate in frigo in piena estate.
Hekan è l’ultimo nato di un piccolo brand cittadino che al momento conta anche Hekfanchai, cibo di strada di Hong Kong, e un forno pasticceria (Hekfanchai Bakery). L’ultimo nato è in piena Brera, nella piazzetta più bella di Milano, quella più parigina, dove il pavimento lustro luccica sotto i lampioni ottocenteschi, donando quello scintillio languido come se avesse appena piovuto. Il piano su strada è una specie di foyer, elegante e sobrio, con sistemati alcuni coperti. Il grosso del ristorante è sotto terra, dove si sviluppa una serie movimentata e labirintica di piccole sale a tema, separate da archi circolari che forse ricordano un gong, o forse l’apertura delle casseforti dei caveau. Se si accantona la sensazione vagamente claustrofobica, il tutto non è male e fa un certo effetto.
Lo chef viene dalle cucine di MU dim sum, il fine dining – quello sì – dei dim sum a Milano. E in effetti sono più che buoni i ravioli cristallo con funghi, i bao con brodo di maiale, i ravioli con capesante, sebbene in questi ultimi la pasta fosse leggermente screpolata e poco setosa.
Il bao ai funghi gioca a ricostruire all’interno di una piccola teca di legno un micro ecosistema boschivo, il terriccio un sablée al cioccolato, su cui posano i bao sagomati come funghi. Il bao ai funghi è anche la rappresentazione lampante della differenza tra fine dining e velleità di fine dining. Nel primo caso, ad esempio, rimanendo sull’abbinamento funghi-cioccolato, i cioccolatini al profumo di funghi porcini del grande chef francese Régis Marcon furono come una misteriosa scatola magica, una porta segreta dietro cui si spalanca travolgente lo spazio umido, fresco, aromatico della foresta. Nel secondo caso, quello dei bao di Hekfan, l’accoppiata funghi-cioccolato è lettera morta, perplessa, posticcia. Due ingredienti disgiunti che si guardano e non si capiscono.
Il tofu croccante con mix di spezie ha la consistenza spiazzante e perturbante del marshmallow. Le capesante con broccoli e sugo di capesante secche di Hokkaido è un piatto piuttosto ben riuscito, delicato, sottile e raffinato negli aromi. L’orecchia di mare, un mollusco chiamato anche abalone, stufata nel vino shaoxing è giusto un assaggino ma si fa apprezzare per la sua rarità. La carta dei vini è breve e convenzionale.
Opinione
La natura di fine-dining di questo nuovo ristorante specializzato nella cucina di Hong Kong è confinata nell’auto-definizione stessa del ristorante e nei comunicati stampa. Alla prova dei fatti, Hekfan offre una cucina che dell’elevato ha solo la velleità. Idee grossolane, realizzazioni indistinte. Si salva qualche piatto più semplice e delicato. Ambiente abbastanza ricercato, sebbene la sistemazione sotterranea non possa che essere considerata una debolezza.
PRO
- Nel cuore di Brera, in una delle più belle piazzette di Milano.
CONTRO
- Cucina deludente e raffinata solo sulla carta. Idee spesso grossolane, con esiti al più ordinari.