Sbrigativamente si tende a definire lo stile culinario kaiseki, di cui Hazama è credo l’unico esponente a Milano se non in tutta Italia, come il corrispondente giapponese dell’alta cucina d’autore, diciamo dalle due stelle Michelin in su.
È questo però un paragone pigro, perché se è vero che di alta cucina si tratta, attingendo dalle sfere massime della tradizione nipponica tra cui la cucina cerimoniale e imperiale, la sua ragione d’essere risiede altrove. È piuttosto la sublimazione, il pinnacolo della ricerca di quella comunione con la natura, sia fisica sia spirituale, che pervade il sentire giapponese e di cui il cibo si fa in più di un caso tramite. E non solo nelle stanze assorte di un ristorante di alta fascia, ma anche in atti e abitudini ben più prosaici e quotidiani. Già in casa, la meticolosità e artefazione con cui le madri giapponesi preparano la bento box (la schiscetta a comparti) ai figli per la scuola risponde al tentativo di far apparire il cibo non solo naturale, ma più perfetto di quanto la natura da sé possa fare. Come osserva l’antropologa Anne Allison, nella cucina giapponese, la natura non è solo rappresentata, ma inglobata e superata.
Natura nel piatto significa in primo luogo stagionalità. E forse il passaggio più pregnante della carrellata, significativamente al centro della rigida sequenza che segna il crescendo e il decrescendo di cotture, colori e consistenze, è la composizione di assaggi di stagione. Un altare evocativo e profano a celebrare l’inverno, una lastra spolverata di bianco neve e di scaglie di rapa macerate nel vino rosso a ricreare i petali del ciliegio invernale. Il girotondo inizia con l’allusione scherzosa allo snack economico per eccellenza, il surimi. Bastoncini di polpa di granchio al supermercato, qui polpo, pesce bianco e calamaro pressati, avvolti nella pelle di tofu e resi in leggera frittura. La scaloppa di nasello appena fritta in farina di riso ritorna sul gioco del bianco, al colore luminoso corrisponde una consistenza di superficie che più che frittura è una lieve, polverosa increspatura. Il tutto sorretto da una potente emulsione di cima di rapa e brodo dashi.
Le lamelle di polpo appena scottate sono crespe e prodigiosamente non gommose per essere quasi crude. La salsa di bergamotto le completa in un unisono mare-agrumi che sa di brivido fresco. Il paesaggio cambia, forse diventa notturno, con i filetti di sgombro alla soia e scorzonera (un tubero) marinata nella pasta di miso. È dolce, fibrosa, fondente, ricorda il carrube ed esalta alla perfezione la sapidità ispida del pesce.
Nella sempiterna, irrisolta questione se il cibo, almeno in alcune forme, sia da considerarsi arte non mi addentro, ma se un fatto fa propendere per il sì è questo: in entrambi i casi più il contorno normativo è stretto, più strutturato è il recinto di riferimento, più l’afflato creativo è spinto alla massima originalità. Da cinque rigide righe di pentagramma e infinite, tediose regole compositive nasce la musica più libera e straordinaria. Avviene lo stesso nella cucina kaiseki, con le portate in rigida successione che ha a che fare con le proprietà salutari dei cibi, con il bilanciamento meticoloso di sapori, consistenze e colori, con il racconto progressivo e grafico della stagione di riferimento. Con la successione calibrata delle cotture, dalle leggere a quelle più aggressive e poi in decrescendo di nuovo fino al compimento del pasto.
Dunque si inizia con un piccolo antipasto (qui il menu), un cubetto di cavolfiore pressato e lavorato al vapore come il tofu, su crema di cavolo romanesco tenue e densa. Il percorso continua con una portata al vapore, un filetto di cernia invero troppo asciutto e stopposo, ma immerso in una delicata, limpida zuppa carica di tutto l’inverno possibile. Retrogusto agrumato, bastoncini di zucca e rondelle di cavoletti come ninfee di uno stagno nella foresta.
Nel sashimi spicca il calamaro intagliato a listelle, setoso e dolce come pasta fatta in casa, e il colpo fresco ed erbaceo della foglia di shiso fresco (basilico giapponese). Dopo il paesaggio invernale di cui sopra, per la frittura arriva tofu fatto in casa (chi altro lo fa a Milano?) in doppio strato con capasanta e preziosa guarnizione di riccio di mare. Il capitolo griglia (yakimono) è triglia alla brace. I filetti marezzati ricchi di sapore e color arancio rosato, come pezzi di corallo grezzo adagiato su un paesaggio salmastro fatto di nastri di indivia arrosto e piccole meringhe salate come spuma marina. Ricorda una spiaggia invernale battuta dal vento. Fiocchi di carciofo fritto e battuto nel mortaio tradizionale a complimento del migliore piatto della serata. Il percorso si chiude con un sostanzioso “secondo” di riso aromatizzato con scorfano alla brace e gelato al tè verde e riso soffiato.
Esistono diversi livelli di cucina kaiseki, naturalmente commisurati al costo. Da Hazama va in scena una versione relativamente semplice, essenziale, pur dentro lo spettro della intrinseca complessità di questo stile. Mangiando kaiseki in Giappone, mi sono imbattuto ad esempio nella sacca di interiora di seppia, estratta integra con un unico gesto preciso e grazie ad un coltellino creato solo a quello scopo. Cruda, immersa in un intingolo indecifrabile e da ingollare in un colpo solo, fu un boccone dal carattere totalmente extraterrestre. Ho visto (e mangiato) composizioni che si fa fatica a credere stiano in piedi tanta la complessità e minuzia delle forme. Ho pagato, però, molto, molto di più. Con un’offerta a 95 euro (bere escluso) lo chef Satoshi-san porta a Milano una declinazione più accessibile e non troppo complicata della cucina kaiseki. E certamente di notevole valore.
Opinione
Unico caso a Milano (se non in tutta Italia) di cucina kaiseki, massima elevazione della cultura gastronomica giapponese. Pigramente assimilata alla cucina occidentale d’autore, il vero senso risiede invece nella celebrazione della natura e della stagionalità attraverso un menu degustazione fatto di piccole portate sofisticate. Hazama onora questa tradizione con competenza e immaginazione adeguate. L’ambiente è sobrio e raffinato.
PRO
- Rarissimo (e benvenuto) esempio di cucina kaiseki, massimo grado di elevazione della gastronomia giapponese.
- Ingredienti ricercati, creazioni fantasiose, evocative, molto ben eseguite per la gran parte.
CONTRO
- Lo stile kaiseki può raggiungere livelli di sofisticazione più alti di quanto qui proposto.
- Delle due sale, solo la prima è molto bella e stilosa.