Ma insomma, questo granchio blu, com’è? Brandito da mani istituzionali, agitato a mezz’aria, mozzato di una parte delle chele per poter essere tenuto in mano a favore di telecamera senza temere danni fisici, preso addirittura a morsi – appena raccolto – da pescatori tra l’eroico e il folle, il crostaceo più popolare e invasivo (in acqua e fuori: le piattaforme social ne sono la prova) del momento non poteva non essere oggetto di una delle nostre prove d’assaggio.
Una prova che deve tuttavia essere preceduta da un paio di premesse, di metodo e di merito. Di metodo. Abbiamo assaggiato il granchio blu in due ristoranti 1 stella Michelin, rispettivamente Venissa a Mazzorbo e il Local a Venezia: mangiarlo in contesti simili è ovviamente ben diverso
rispetto a quelli domestici. Tecnica, accostamenti, sperimentazione e persino estetica rappresentano un discrimine fondamentale: tuttavia, all’eventuale obiezione che potrebbe essere sollevata circa il fatto che una mano stellata sia in grado di rendere appetibile anche l’ingrediente più inespressivo e insapore, possiamo tranquillamente rispondere che le carni del granchio blu non rientrano nella categoria. Semmai, il tocco degli chef è stato fondamentale per renderlo migliore o, meglio, per consentirgli di esprimere al massimo le proprie potenzialità.
Considerazione di merito. Di granchio blu, come abbiamo già scritto, si parla da tempo. L’allarme sulla sua invasività e sulle conseguenze che la sua presenza avrebbe potuto causare al nostro ecosistema e alle specie autoctone è stato lanciato da tempo, rimanendo per molto inascoltato. Gli chef di Venissa e del Local ci ragionano da tempo e sono arrivati ad inserirlo in carta dopo tentativi e prove: una cosa è preparare un condimento per la pasta altro è capire come trasformarlo dandogli vesti da fine-dining.
Questo per dire che il ragionamento su un suo uso gastronomico parte da lontano e quindi l’assaggio “stellato” che abbiamo potuto sperimentare vale forse di più e rappresenta sicuramente un punto di osservazione privilegiato sulla materia.
Il granchio blu “in purezza”: com’è
Ed ora a noi. Da Venissa, una presentazione gentile e femminile – giocando a contrasto – e una lavorazione che lo ha mantenuto pressoché in purezza ne ha consentito un assaggio più “pulito”. Di colorazione avorio, le carni hanno una consistenza che assomiglia a quella dell’astice e se la cura di quest’ultima di quest’ultimo è più facile non avendo conseguenze sulla resa, con il granchio blu il discorso cambia. Curarlo è un’operazione complessa, che richiede tempo e che riduce la carne a filamenti: il risultato è un boccone che, come resa, assomiglia all’effetto della granseola.
Il sapore è una dolcezza delicata, piacevole, non stomachevole ma “semplice”: la nota sapida o più classicamente marina o lagunare che accompagna, per esempio, gli esemplari della laguna veneziana, qui manca rendendo le carni del granchio blu più piacione, più facili e probabilmente più versatili, sia come posizione nel menu (dall’antipasto al secondo) sia come accostamenti (soprattutto nel caso di spezie o erbe aromatiche). A chi è abituato a gusti più complessi e articolati, dalla maggiore persistenza al palato, un sapore come questo potrebbe alla lunga stancare o rivelarsi troppo piatto.
Il granchio blu contaminato
Ed ecco il Local, a dimostrare quanto dicevamo poco sopra: qui, accompagnato da fagiolini, tapioca e limone candito, il granchio ha trovato un contesto in cui dimostrare versatilità e adattabilità, oltre che piacevolezza, trovando nell’agrume una validissima sponda, su cui ragionare.
Il granchio blu è buono, insomma? Rispondere alla domanda significa fare uno sforzo in più: il suo carattere adattabile non significa tono insapore. Forse ha più senso domandarsi che piatto vogliamo preparare e allora qui sì, ha senso un ragionamento sulla sua valorizzazione.