Da un po’ di tempo a questa parte sento in giro la voglia di tanti chef di tornare nelle proprie cucine, di fronte ai propri fornelli, a un passo dai propri clienti.
Fino a vent’anni fa in Italia era piuttosto normale che uno chef –anche di grande levatura, anche d’un ristorante siderale– passasse la vita nel chiuso del proprio locale, relazionandosi quasi esclusivamente con dipendenti e clienti.
Era il protagonista del suo show, ma lo show era chiuso in una stanza.
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Poi sono arrivati i congressi, le consulenze internazionali, le riviste, la televisione, le pubblicità, e parallelamente è arrivata la cucina preparata e poi riassemblata che ha industrializzato il processo, affrancandolo dal cuoco: lo chef s’è globalizzato, ha cominciato a girare, parlare, farsi vedere e a stare molto meno a casa sua.
È un male? Un bene?
Il discorso è complesso e non in bianco e nero, ma quel che è certo è che oggi tanti grandi chef si stanno stancando del “circo” e hanno voglia di tornare a casa, a contatto con i fornelli e i clienti.
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La domanda è: lo faranno davvero?
Io credo di no.
Fatto salvo per qualche cuoco purissimo (penso a Paolo Lopriore), non immagino che chi è uscito dalla cucina per andare nel mondo riesca a rinunciare al tanto che ha ottenuto, in termini di visibilità, di ego, di successo e denari.
[Perché non chiedere le cose che si dicono di Paolo Lopriore, direttamente a Paolo Lopriore?]
È come se un calciatore che gioca in Champions dicesse “basta con tutti questi viaggi, questa spettacolarizzazione del calcio, queste macchine potenti: il pallone è un gioco, voglio tornare nel campetto sotto casa”.
Sarebbe bellissimo. Ma non credo che accadrà mai.