C’è una città in Italia in cui Gaston Acurio o Daniel Humm o Alex Atala o Yotam Ottolenghi o Lidia Bastianich anche se volessero, non potrebbero aprire un ristorante.
C’è una città in Italia in cui non si potrà mangiare il miglior sashimi, in cui è bandita l’apple pie, in cui non si può bere sake o, immagino, nemmeno bourbon.
Quella città è Genova.
Da pochi giorni il sindaco Marco Bucci ha emesso un’ordinanza “contro qualunque ristorante nel centro storico che non cucini secondo le “tradizioni europee”” (da “La Stampa” odierna, articolo non online).
Ma bisogna essere abelinati.
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Le più grandi metropoli planetarie sono tali anche perché si possono mangiare tutte le cucine del mondo –l’altroieri sono passato davanti al Lima Fitzrovia che il peruviano Virgilio Martinez ha aperto a Londra, per dire– e Genova le proibisce, per mascherare il vero obiettivo, cioè la cacciata dei kebabbari.
Ma bisogna essere abelinati.
Proprio Genova, che è stata ricca e potente quando era il cuore dei commerci del mondo, ché ci arrivavano le spezie dalla Cina e i semi dalle Americhe. Proprio Genova. Gastronomicamente protezionista. Genova. Un porto.
Bisogna proprio essere abelinati.
Poi chissà cosa vorrà dire “le tradizioni europee”. C’è qualcuno che ha fatto un prontuario con le ricette “europee” autorizzate?
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La carbonara non va bene, visto che con ogni probabilità l’hanno inventata settant’anni fa gli americani? Il cous cous va bene? La cucina armena è ok e quella turca no?
Io non ho parole per una castroneria del genere. Ah, sì, una parola ce l’ho: abelinati.
PS: ci sono altre città che hanno e stanno varando provvedimenti del genere. Dedico anche a loro questo mio commento, cambiando magari l’epiteto a seconda dell’occasione: grulli, mona eccetera.