Questi sono tempi in cui non sembrano potersi accendere nuove insegne senza una precisa identità accuratamente studiata a tavolino, senza l’ossessione per il posizionamento, sia estetico sia gustativo, sia certamente di mercato. A questo andazzo Frangente offre un’alternativa rinfrescante su Milano, smarcandosi da stretti inquadramenti concettuali (anche detti, ahimè, ahinoi, ahi-tutti, concept).
La nuova casa dello chef Federico Sisti, ex capo pluri-lodato della cucina all’Antica Osteria il Ronchettino, sorge ai confini settentrionali di quell’area tra Porta Venezia e Lazzaretto che si è consolidata come il food village più irrequieto della città, con saracinesche nuove alzate con cadenza quasi giornaliera.
La “cucina libera” di Sisti tiene fede a detta auto-proclamazione e sfugge a fili conduttori particolari. Dunque un ristorante punto e basta, italiano, o forse europeo contemporaneo, ma già scivolo in quella tentazione classificatoria che mal si adatta al luogo. Se una coerenza di racconto si vuole proprio cercare, allora è quella della concentrazione sull’ingrediente e della destrezza nelle cotture di base.
Il diaframma di giovenca con fagioli cannellini ed erbe e la cotoletta alta di vitello con purè di patate sono buoni esempi a tal proposito. In entrambi, la carne è cotta a pennello: al sangue, tenace e succosa nel primo, morbida e polposa nel secondo, con un’ombra di rosa nel cuore che centra in pieno il punto di cottura ideale. La cotoletta è altissima, servita senza osso, tanto da assumere una forma quasi tondeggiante che ricorda un arancino fritto. è però incomprensibilmente adagiata su una pozza di purè di patate, che oltre ad essere piuttosto insipido e manchevole di cremosità e setosità, infligge un notevole danno alla panatura della cotoletta che, ammollata, presto si trasforma in poltiglia sgradevole.
Attraverso gli altri piatti emerge costante l’impressione di una cucina diligente ma sbiadita e di scarso impatto. Gli antipasti soffrono una tensione irrisolta tra – di nuovo – cotture ben azzeccate e passi cedevoli nel gioco dei sapori e nella ricerca di guizzo gustativo. La testina di maiale, in forma di piccoli medaglioni in duplice cottura, è ricca e vischiosa, ma per notare l’aroma di gin bisogna fare riferimento a quanto scritto nel menu, unico luogo dove sia riconoscibile.
Le animelle sono fragranti, morbide, dolci e avvolgenti come un morso di pane appena sfornato, la zucca arrosto d’accompagno dona note delicate e tostate molto pertinenti. Ma l’agro di mosto, ragionevole elemento acidulo di contrasto, è muto e impercettibile.
Le pappardelle con spalla di cinghiale sono come quel/quella conoscente che ti hanno presentato cento volte ma che continui a dimenticare. Sono trasparenti ai sensi, lasciano un’impressione che dura meno del primo boccone. Sarà la pasta buona e fatta in casa ma troppo sottile, sarà il ragù bianco a pezzettoni poco aggraziati e poco saporiti, sarà..Viene da pensare che se parte della personalità e della spinta estetica di cui è carico il locale fosse trasferita in cucina si avrebbe un riequilibramento benefico.
Varcato l’ingresso, la scena è concitata e accogliente, subito a destra la cucina a vista con alcuni posti al bancone e lo chef in primo piano; il resto della sala ravvivato da colori accesi e remotamente marini, il blu scuro del mare aperto, l’acciaio lucente dei mulinelli delle barche, il sabbia delle spiagge. Molto bello, anche se questa scena intima che mira all’informalità è in rapporto un po’ spaesante con il servizio che è invece decisamente formale. Camerieri in camicia candida girano per i tavoli con vassoi di panno bianco per le posate, come in un ristorante alto-borghese. Formalismo però depotenziato da piccoli impacci qua e là del servizio (peraltro sempre gentile e aggraziato) che rendono l’atmosfera un filo frenata e poco fluida.
Se il sommelier fosse arrivato al tavolo semplicemente con qualche minuto di troppo, senza che il cameriere lo avesse annunciato quattro o cinque volte nel frattempo, questo minimo incidente sarebbe passato inosservato. Se la cassa si dotasse di qualche lettore pos aggiuntivo, si eviterebbero quindici minuti di attesa per saldare il conto, neutralizzando quel fenomeno curioso del tutto milanese per cui tutti si alzano più o meno alla stessa ora al ristorante.
La cantina propone una scelta abbastanza stringata ma ben pensata, inoltre ci sono i saké e una buona selezione di gin. Non si paga il coperto, un simpatico gesto di benevolenza in una città in cui spesso questa voce marca la soglia dei 5 euro. Per il resto, i prezzi sono nella media cittadina. Il menu è corto e credo pensato per cambiare frequentemente.
Opinione
Benvenuta l’idea di un ristorante senza tante sovrastrutture concettuali, dove lo chef si sente chiaramente a casa e lo stesso trasmette agli ospiti. Tuttavia l’entusiasmo non ha vita lunga, a causa di una cucina che non sembra capace di prendere vita e colpire i sensi con sapori e accostamenti che donino una qualche emozione. Il locale è bello, colorato e accogliente. Magari con il tempo e con ancora un po’ di rodaggio l’entusiasmo che trasuda il luogo contagerà anche i fornelli.
PRO
- Ambiente vivace, colorato, accogliente.
- Destrezza con le cotture soprattutto della carne.
CONTRO
- Cucina in generale sbiadita e di scarso impatto.