L’anno zero dei fattorini è al termine mentre le storiche svolte nel sempre più preminente settore del food delivery, acquisiscono sempre più peso specifico. La battaglia dei rider per una giusta contrattualizzazione infatti procede a passi spediti e la scossa – dopo mesi di calma piatta – l’hanno data prima l’accordo raggiunto lo scorso 16 settembre tra il minoritario sindacato UGL (Unione Generale del Lavoro) e AssoDelivery, l’associazione che riunisce i più grandi player del settore (tra cui Deliveroo, Glovo, Uber Eats e Just Eat), e quindi la scelta di Just Eat di rompere il fronte comune delle aziende annunciando di voler regolarizzare tramite un contratto di lavoro dipendente i suoi fattorini.
Per protestare contro l’accordo chiuso tra il sindacato sdraiato ai desiderata dei padroni (e per altro ben poco rappresentativo della classe lavoratrice in questione) e la cordata di AssoDelivery i fattorini scesero in piazza per protestare in addirittura 22 città.
Ipotesi di contratto e reputazioni aziendali
Nel frattempo, spinto a scrollarsi dalla sua atavica sonnolenza dagli eventi, il Ministero del Lavoro ha sancito in una circolare a metà novembre (meglio tardi che mai) che le compagnie di food delivery non possono pagare i fattorini a consegna – schierandosi in qualche modo con la linea indicata da Just Eat. (Just Eat che nel frattempo ha raccolto i frutti delle sue giuste posizioni anche a livello di marketing, secondo un’analisi condotta da Zwan – un’azienda che misura la reputazione aziendale – il player danese nell’ultimo mese ha infatti visto crescere nettamente la propria reputazione aziendale.)
Il pagamento a cottimo e la concezione di fondo stessa del contratto ipotizzato da UGL e AssoDelivery non hanno infatti trovato sponde tra i rider, le altre sigle sindacali e ora neanche tra i corridoi ministeriali, sebbene le piattaforme abbiano provato a sostenere che secondo i loro parametri i fattorini dovrebbero arrivare a guadagnare almeno 10 euro l’ora – sebbene i rider stessi neghino che questa cifra venga raggiunta, almeno non in diverse città italiane. Nel dettaglio gli uffici legislativi ministeriali si sono stavolta concentrati sulle modalità in cui viene accordato il compenso ai rider, stabilendo che ciò non può avvenire attraverso formule che prevedano il cottimo integrale. La legge insomma non contempla per un contratto collettivo di questo tipo il solo riferimento al numero di consegne effettuate (ignorando dunque i tempi morti e le attese tra una spedizione e l’altra).
Il contratto ipotizzato da AssoDelivery e UGL (che pretendono di poter stabilire un criterio del compenso minimo per consegna legato ai tempi stimati dalle piattaforme) sarebbe insomma una forma di cottimo mascherato, inaccettabile a detta del Ministero che ha anche rincarato la dose in riferimento alla poco rilevante capacità di UGL di rappresentare i rider: nel testo ministeriale è infatti specificato che una sola organizzazione sindacale non maggioritaria “non è idonea a derogare alla disciplina di legge”.
Inquadramento nazionale
La definizione del compenso da accordare a una categoria di lavoratori 3.0 come i rider, ricade in quanto stabilito dal Jobs Act nella sezione relativa alla Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali, introdotta nel decreto imprese nel settembre 2019 e che in effetti prevede una delega alla contrattazione collettiva per la definizione del salario di lavoratori attivi in questo settore (mi viene francamente davvero da chiedermi perché mai).
In ogni modo il Ministero ha stabilito che nel caso dei rider non è comunque possibile utilizzare il cottimo integrale, mentre è possibile calcolare il compenso in relazione alle modalità di svolgimento dello stesso e all’organizzazione delle piattaforme (per dirla in soldoni: i rider prendendo ordini e consegne da una App non sono di fatto inquadrabili come lavoratori autonomi), ossia tutt’al più si può usare un cottimo misto (con una parte fissa, legata all’orario di lavoro, e una mobile, agganciata al numero di consegne effettuate).
Glovo: la sentenza storica
Come non fosse bastata l’uscita ministeriale a mettere i bastoni tra le ruote al nefasto tentativo di contratto per i rider ipotizzato dall’asse AssoDelivery-UGL, a dare addosso alla loro ipotesi proto-schiavista sono arrivati anche i tribunali del lavoro. Farà infatti, come si dice in questi casi, giurisprudenza una sentenza del Tribunale di Palermo, che ha imposto a Glovo – uno dei principali player nel settore del food-delivery – di assumere il quarantanovenne rider Marco Tuttolomondo, che aveva iniziato a lavorare per la piattaforma verso la fine del 2018, pedalando tra le strade del capoluogo siciliano anche dieci ore al giorno per le quali era pagato ovviamente solo a consegna.
Tuttolomondo a inizio 2019 era divenuto sindacalista Nidil (la categoria sindacale della CGIL dedicata alle Nuove Identità di Lavoro), e a marzo – in seguito ad alcune sue esternazioni – veniva disconnesso dalla piattaforma delle ordinazioni, e quindi di fatto licenziato. Dopo aver presentato un ricorso al tribunale palermitano il rider era stato nuovamente connesso da Glovo ma la sua causa nel frattempo è proseguita. A fine ottobre una giudice del Tribunale di Palermo aveva proposto a Glovo l’assunzione di Tuttolomondo, l’azienda ha deciso di respingere l’offerta ma nulla ha potuto contro la sentenza emessa dallo stesso tribunale nel novembre 2020, che ha sancito l’assunzione del rider stabilendo che tra Glovo e il fattorino “intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato da inquadrare nel sesto livello del CCNL terziario distribuzione e servizi”.
Glovo è stata così costretta ad assumere il rider come lavoratore dipendente, a tempo pieno e indeterminato, applicando i minimi salariali previsti dal contratto collettivo del terziario, oltre a subire una condanna che prevede il versamento di oltre 13.000 euro di differenze retributive. Nel dettaglio, le motivazioni dei giudici affermano che “in verità, non è lui (il lavoratore), che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse del lavoratore”.
La sentenza come detto è destinata a fare scuola, essendo la prima che nel nostro Paese costringe un’azienda di food delivery ad assumere un rider, riconoscendo pienamente il rapporto di lavoro subordinato al fattorino, al cui contratto saranno applicati i minimi salariali previsti dal contratto collettivo del terziario, garantendogli uno stipendio fisso inquadrato a livello nazionale. La Cassazione aveva infatti stabilito che i fattorini sono da un lato lavoratori autonomi, ma hanno però diritto alle tutele in vigore previste per i dipendenti.
Per capire come si evolverà ulteriormente la questione collettiva dell’inquadramento lavorativo dei rider non ci resta a questo punto che aspettare il negoziato tra ministero, sindacati e piattaforme, che il 9 dicembre si incontreranno per dirimere gli aspetti più controversi dell’intera questione, vale a dire quelli relativi a tutele e diritti dei rider – che passo dopo passo in Italia stanno nel frattempo conquistando un pieno riconoscimento del loro statuto lavorativo.