Siamo da Flavio al Velavevodetto a Roma, tra le più famose osterie della scena capitolina. Ecco la nostra recensione.
Cos’è una trattoria? Chi mi segue da un po’, su Dissapore, saprà ormai che concepisco il format secondo uno schema tanto semplice quanto rigido; fondato su due soli parametri: tradizionalità dell’offerta e prezzo accessibile. Sembrerà poco, ma già trovare esercizi ristorativi che si posizionino con i giusti attributi su questo elementare spazio cartesiano non è facile, entro i confini del Grande Raccordo Anulare.
Spesso infatti le “trattorie contemporanee” romane cedono a lusinghe internazionali inserendo in carta piatti assolutamente fuori baricentro rispetto alla scelta da trattoria propriamente detta, che fanno pensare a bistronomie di stampo francese più che alla storica ristorazione quotidiana italiana: niente in contrario, ma chiamiamo le cose col loro nome.
Altrettanto spesso, poi, le trattorie cedono alla lusinga di rifilare ai clienti conti più propriamente “da ristorante”; vuoi perché il confine tra trattoria e ristorante tipico su piazze come Roma, dalla grande tradizione gastronomica, è spesso davvero molto labile; vuoi per il costo degli affitti, e le tasse, e l’AMA; vuoi perché alla lunga in una città si fa cartello e se lo scontrino medio della trattoria è di 35-40 euro, perché da noi se deve paga’ de meno?!
È un contesto, quello romano, in cui l’infighettimento dell’offerta gastronomica da una parte, e la sua turistizzazione dell’altra, hanno cancellato al di là di pochissimi e periferici casi la trattoria propriamente detta: buona ma alla buona, popolata e popolare.
Il processo, d’altra parte, ha partorito una schiera di osterie nel senso slowfoodiano del termine; in cui la tradizione viene declinata in chiave altoborghese con ingredienti non più generici ma selezionati, e una tecnica che recupera quella della tradizione orale e familiare per cristallizzarla in formule più riproducibili, ortodosse e ristorative.
Capostipite di questa schiera è senz’altro Felice a Testaccio, tra i primi ristoratori ad aver interpretato il passaggio di testimone tra la “vecchia” e la “nuova” Roma delle trattorie verificatosi indicativamente tra gli anni Novanta e i primi Duemila; e ad aver adeguato l’offerta ai venti nuovi della gastronomia capitolina.
Discepolo di Felice Trivelloni, che dell’omonimo locale era anima e oste, è Flavio De Maio; cresciuto culinariamente nelle botteghe di via Mastro Giorgio proprio negli anni in cui la storica anima popolare del locale si preparava a una revisione radicale dei modi e degli obiettivi, arrivata dopo la dipartita del patron nel 2009.
Della scena delle moderne osterie romane, De Maio è tra gli attori più brillanti e di successo anche commerciale: “Re della Carbonara”, titolare prima del Velavevodetto a Testaccio e poi di quello a Piazza dei Quiriti, socio con Stefano Callegari del redivivo e goliardico Charro Cafè, coautore con Dario Torromeo di “L’oste della porta accanto”, un libro autobiografico tra ricette e aneddoti.
Siamo andati a trovarlo (per forse la trentesima volta, in realtà) al primo Velavevodetto, quello di Via di Monte Testaccio.
Il locale
L’osteria è racchiusa in una palazzina testaccina dalle molteplici sale, in cui spazi nuovi si aprono dietro ogni angolo: le grandi sale interne, basse e dipinte di bianco, sono perennemente affollate e rumorose a volte fin oltre il gradevole: ma siamo in un’osteria, l’atmosfera è calda, superato l’impatto diventa bella e naturale anche la caciara. In fondo, grandi vetrate offrono uno spaccato del Monte dei Cocci, segreto di Testaccio su cui il ristorante poggia. Si tratta di una discarica di vasi e frammenti di terracotta risalente alla Roma antica, divenuto nel tempo una vera e propria collina: l’agglomerato poroso trattiene umidità e lascia passare aria, rinfrescandola e fungendo da gigantesco climatizzatore sostenibile per le torride estati del quartiere. Nelle belle giornate, da Flavio si apre la terrazza e si mangia fuori; sentendosi un po’ in una fraschetta di campagna.
Il coperto è semplice, tovagliato bianco e bicchieri in vetro spesso, alle pareti memorabilia, foto e attestati aiutano ad immergersi in un sentimento accogliente e leggero.
Il menu si apre con un invito a rinunciare alla fretta, poi una pagina dedicata a fornitori e produttori degli ingredienti usati in cucina: i piatti offerti, in continua rotazione, sono descritti in maniera immediata ed essenziale; tutti appartenenti alla tradizione specificatamente cittadina o al massimo legati a una dimensione casalinga più estesamente italiana (come nel caso dei ravioli di ricotta di bufala al pomodoro e basilico, o in quello della pantagruelica fettina panata).
La carta dei vini include classici dell’enologia convenzionale e qualche proposta biologica, biodinamica o naturale.
I prezzi
Il listino si colloca nella media delle analoghe offerte presenti in città: antipasti dai 5 ai 10 euro, primi da 10 a 14, secondi 10-16; con la differenza rispetto alla generica trattoria acchiappatutto di poter usufruire di ingredienti di qualità garantità. Si beve a ricarichi da medi a medio-alti.
I piatti
Porchetta fatta in casa, 8 euro, con carni della macelleria Nardi di Pescia Romana: aveva un crunch che mi ha perforato i timpani al primo morso, succulentissima e ben condita, paga lo scotto di un leggero eccesso di sale. Comunque una porchetta eccezionale: avercene.
Zucchine alla scapece, 6 euro: l’amico che mi accompagnava, di Milano, era stato qui con me forse tre o quattro anni fa e ricordava questo piatto. Caso ha voluto che lo ritrovasse, e lo ha riordinato: vegetale dolce, carnoso e cotto alla perfezione, fritto e condito con aceto di vino in maniera talmente delicata da far risaltare il sapore dell’ingrediente protagonista, lasciando alla parte acida solo il ruolo di ripulire il palato, sollecitare la salivazione. Memorabili con lode.
Amatriciana, 10 euro: rigatone al chiodo, condito riccamente da un sugo che si rivela per i miei gusti troppo “lento” e tendente al pomodoro fresco. Il guanciale, tenuto morbido, è saporito e di consistenza aderente alla tradizione. Comunque gustosa, ma l’amatriciana a me piace più ristretta e incazzata.
Carbonara, 10 euro: se vieni da Flavio e non mangi la carbonara non sei nessuno. Si tratta di una carbonara “atipica” e allergica ai dettami integralisti dei sedicenti talebani del piatto: il guanciale è rosolato in olio d’oliva, l’uovo si aggiunge direttamente in padella e si emulsiona col grasso del salume aggiungendo acqua effervescente, infine aggiunta la pasta si manteca a fuoco diretto (sì, col rischio di trasformare la cremina nella temutissima frittata): il risultato è spumoso e avvolgente, con le uova leggermente montate dalla saltatura in padella che hanno inglobato alla perfezione la frazione grassa del guanciale, e del suo olio, e la struttura sapida del pecorino.
Pollo coi peperoni, 14 euro: non amo il pollo, né i peperoni – ma questo piatto si prende lo scettro di star della serata. Una carne dal sapore antico, di cortile di campagna, cotta fondente e che si sfila dall’osso accompagnata da peperoni intensissimi, zuccherini, che irrorano il cavo orale con i propri succhi e quelli assorbiti dalla carne in cottura; coadiuvati dalla leggera dolcezza di un pomodoro dosato saggiamente e dal liberale impiego di erbe aromatiche fresche. Abbiamo accompagnato i peperoni presenti nel secondo con, pensate un po’? ALTRI peperoni, nello specifico dei friggitelli. Nonostante scegliere come contorno di un piatto un condimento già presente nel piatto stesso possa non sembrare la più brillante delle idee, la carica verde e la frazione bruciacchiata dalla frittura in padella dei cornetti napoletani contrastava bene il feeling, generalmente dolce, del pollo alla romana.
Crostata ricotta e visciole, 5 euro: pasta frolla “romana”, morbida e sottile, per questa crostata “come una tarte tatin”. Il ripieno è goloso, ricco di ricotta di pecora e composta di frutta succosa, e di un rapporto dolce-acido-grasso in perfetto bilanciamento: anche a chiusura di un pasto senza dubbio impegnativo, scivola via in punta di forchettina in men che non si dica.
È difficile credo, per chi ama e conosce le tradizioni della Capitale, andare al Velavevodetto e alzarsi insoddisfatti dal tavolo: qui si trova una cucina che, al netto dei miglioramenti e delle lucidature in termini tecnici e di materie prime, trasuda una romanità che rischia di sparire, obnubilata dalle standardizzazioni e da mode transitorie.
Una romanità d’altri tempi, forse per certi versi spacciata, forse obsoleta, che sopravvive ai vizi e alle perversioni del sistema ristorativo solo grazie al lavoro di osti di autentica passione come Flavio De Maio.
E tutto a prezzi decisamente nella media delle cosiddette trattorie, quando il Velavevodetto non dice mai di esserlo (“Osteria con cucina”, si legge sul sito internet), ma potrebbe vantare maggiori diritti a godere del titolo rispetto a tanti sedicenti che ne battono il vessillo; in virtù della soddisfazione e dell’autenticità che è in grado di ispirare.
Informazioni
Da Flavio al Velavevodetto
Indirizzo: Via di Monte Testaccio 97
Sito web: https://www.ristorantevelavevodetto.it/
Orari di apertura: tutti i giorni 12.30 – 15 e 19.45 – 23
Tipo di cucina: tipica romana con ingredienti di territorio
Ambiente: rilassato e “romanesco”
Servizio: informale