Vi abbiamo raccontato tutto quello che c’è da sapere sul sushi: un mondo amplissimo e ricco di storia e fascino, nonostante la sua apparente semplicità di “solo” pesce e riso. Un piatto per cui gli italiani, nonostante il loro sbandierato gastronazionalismo, nutrono un amore incondizionato. Siamo i primi consumatori in Europa secondo i dati di Just Eat, e stupisce come questa passione si esprima a tutti i livelli, non solo attraverso le aperture a perdita d’occhio di all you can eat, ma anche con le nuove aperture di ristoranti dedicati all’omakase, la più alta forma del servizio del sushi in cui si lascia carta bianca all’itamae, il maestro di sushi, che ci porge un nigiri alla volta, massima espressione della sua arte e dell’offerta del mercato. Non è certo un’invasione come quella che vediamo nelle food hall dei supermercati o su alcune provinciali intorno alle grandi città, ma è in crescita. Certo, l’ampia diffusione crea spesso fraintendimenti e brutture, e col tempo alcune di queste si sono (irrimediabilmente? Speriamo di no) insediate nelle nostre abitudini e credenze.
Che stiate ordinando il quindicesimo giro di maki da un tablet o stiate osservando un nigiri di ventresca formarsi nelle mani del maestro davanti a voi, vale la pensa di sfatare questi falsi miti: il prossimo sushi lo apprezzerete anche di più.
Niente mischiotto soia e wasabi
Non sappiamo dove sia nata questa discutibile pratica, in alcuni casi avversata anche dalle nozioni basilari di galateo presenti sulle confezioni delle bacchette monouso, e non ci spieghiamo nemmeno il suo successo, visto che il risultato è una fanghiglia opaca che riesce nella difficile impresa di non sapere né di wasabi né di salsa di soia.
È ovvio che si tratterebbe di un peccato capitale se fossimo al banco di un omakase in cui l’itamae abbia appena grattugiato una radice di wasabi fresca su una pelle di squalo e versato della preziosa shoyu invecchiata, ma anche con il surrogato verdognolo di un all you can eat e una salsa di soya da discount, il risultato è ugualmente esecrabile. Prendete una punta di wasabi e mettetela sul nigiri, dal lato che non avrete intinto nella salsa, se deciderete di farlo.
Non sono biscotti
Altra nota dolente: l’inzuppo nel riso a mo’ di frollini nel caffellatte e i conseguenti, rovinosi cedimenti strutturali sono uno spettacolo diffuso ad ogni livello, dal ristorante giapponese più ricercato alle catene, eppure nessuno sembra trarne insegnamento. Un’attenuante ci sarebbe: in un sushi meno che autentico le proporzioni sono spesso sbagliate, con il pesce che copre completamente il riso, mancando di quella parte extra che andrebbe, se gradito, intinta nella soia, costringendo a inclinare o capovolgere il nigiri. Manovre che, se non si è più che pratici con le bacchette, prefigurano un disastro annunciato.
Aggiungere soia like a pro
Se proprio non riuscite a fare a meno di un extra di shoyu, c’è un modo più pratico, elegante e gradito all’etichetta nipponica. Con le bacchette prelevate dalla vostra porzione di gari (la radice di zenzero in salamoia, da mangiare tra un nigiri e l’altro) la fettina più larga, e immergetela – questa sì – nella salsa di soia. La ripescherete al momento del bisogno, usandola a mo’ di pennello per lucidare il pesce, senza rischi di crolli, con l’abilità minima indispensabile richiesta e tra l’ammirazione dei commensali.
Meglio con le mani
Fatica con le bacchette? Il primo consiglio tecnico è quello di modificare l’inclinazione con cui afferrate il pezzo di sushi: più siete perpendicolari minore è la superficie di contatto e maggiore è lo sforzo richiesto per trattenerlo. Probabilmente lo distruggerete, quasi sicuramente cadrà, nel peggiore dei casi prenderà il volo. L’ideale è che le bacchette formino col nigiri un angolo dai quarantacinque gradi in giù, garantendo maggiore presa. Se anche così non ce la fate, arrendetevi pure: mangiare il sushi con le mani non è affatto un affronto al galateo. Anzi, molti veri appassionati di fronte all’eterea creazione di un maestro a un bancone omakase lo preferiscono. Direi che potete permettervelo anche voi.
Il salmone nel sushi non è una tradizione giapponese
Fino agli anni ottanta, il salmone come ingrediente nel sushi avrebbe suscitato sguardi disgustati da parte di un avventore giapponese, e per i grandi maestri il pensiero è tabù ancora oggi. Il salmone del Pacifico era ritenuto troppo pericoloso da mangiare crudo a causa dei parassiti, e consumato quindi cotto come proteina a buon mercato, preferendo per il sushi e sashimi il tonno, il tai (un pesce simile all’orata) o la ricciola hamachi.
A gusto personale, non avevano tutto i torti. Fu il governo norvegese, con il surplus di produzione ottenuto dopo vent’anni di ricerca sull’acquacoltura, ad individuare nel Giappone lo sfogo commerciale ideale: all’inizio non fu facile, ma un accordo con l’azienda di surgelati Nichirei fu la svolta. Partendo dal basso, dai kaiten, i locali in cui i piattini scorrono sul nastro, prima incarnazione “cheap” del sushi, si è poi diffuso fino a diventare uno dei pesci più amati per il crudo.
Fresco (non) è meglio
È un momento in cui la frollatura del pesce sta venendo approfondita e portata alle estreme conseguenze (per poi venire normalizzata e integrata nelle normali tecniche di cucina, fatevene una ragione), ma per i maestri di sushi non è una novità. Un periodo di maturazione del pesce cambia la consistenza, dona pulizia e intensità al sapore, è spesso occasione di marinatura con soia o alghe. La faccenda è complessa, ed è una procedura che parte dal momento in cui il pesce viene estratto dall’acqua, e siamo quindi ben lontani dagli AYCE da supermercato. Ma se davanti a un prezioso nigiri appena formato dalle mani di un rinomato itamae troverete un tonno particolarmente cedevole è saporito, sappiate che non è perché nuotava fino a poche ore prima.