Edoardo Raspelli ha detto che la critica gastronomica è tutta una marchetta

Edoardo Raspelli contro tutti: il noto critico gastronomico se la prende con gli chef, tutti convinti di essere artisti, e con il giornalismo gastronomico, che ormai in Italia non esiste più, anzi è diventato tutto una marchetta

Edoardo Raspelli ha detto che la critica gastronomica è tutta una marchetta

«I cuochi troppo fantasiosi mi fanno perdere le staffe, in  cucina spesso prevale il cazzeggio. E il giornalismo gastronomico  è tutto una marchetta”.

Finalmente.

Finalmente qualcuno che lo dice forte e chiaro.

Basta con i piatti che sembrano tele violentate dal Pollock del piano di sotto, basta con le inquietanti strisciate colorate che imbrattano il nostro triste nido formato da quattro spaghetti in croce, basta con le violette sopra la costata e basta soprattutto con i menù redatti dallo scrittore mancato di turno, che invece di inviare i suoi manoscritti al Premio Strega li catapulta direttamente nei menù del ristorante, certo così  di trovare così schiere di lettori coatti.

Ma soprattutto, i giornalisti gastronomici son (quasi) tutti marchettari, frequentatori di chef d’alto bordo di cui ricambiano i gustosi servigi con recensioni accomodanti, quand’anche  non esattamente veritiere.

E chi lo dice non è il primo vagabondo che passava dalle parti di TripAdvisor,  ma  nientemeno che Edoardo Raspelli,  giornalista, scrittore, conduttore televisivo ma anche, e soprattutto, critico gastronomico. Uno dei primi, forse un po’ appannato ma comunque un caposcuola, le cui sapide e ironiche critiche ci accompagnano da anni dalle pagine de La Stampa.

Con più di 9000 ristoranti visitati, 41 anni di carriera e circa 200 recensioni l’anno, Raspelli emerge,  nel variopinto mondo della critica gastronomica per la sua fiera autonomia di giudizio, incluso l’ormai desueto vezzo di dire la sua in tutta franchezza e sincerità, sganciandosi dal magma indistinto della critica gastronomica allineata e compiacente, votata alla lode indiscriminata di chef e cuochi di turno ammiccanti ormai ovunque in programmi televisivi e propaggini multimediali.

“Se non mi piace lo scrivo, a differenza degli altri», dice Raspelli durante un’intervista rilasciata a Linkiesta; vezzo che, sin dagli inizi, gli ha procurato non pochi grattacapi sotto forma di puntuali querele e relativi procedimenti giudiziari, che lo hanno visto uscire comunque indenne.

“Ho iniziato abbastanza casualmente – racconta Raspelli . A quindici anni scrivevo per alcuni giornali locali, a venti sono arrivato al Corriere della Sera. È stato Giovanni Spadolini ad assumermi alla cronaca. A Milano ho trascorso gli anni di piombo.

Nel 1975 Cesare Lanza mi ha inventato cronista di gastronomia al Corriere dell’informazione. Un giorno mi chiama e mi dice: “Tu devi fare la pagina dei ristoranti. Mangi, paghi e racconti”. Andavo in giro, assaggiavo, poi scrivevo. Mettevo i voti, raccontavo i piatti che avevo provato. E riportavo un’esperienza negativa.

Quella rubrica di stroncature si chiamava “il faccino nero”. Apriti cielo! Una dopo l’altra sono arrivate le prime querele. In quegli anni ho subito una ventina di processi, per fortuna sono stato sempre assolto.

Ed è proprio Raspelli che con la stessa franchezza si scaglia contro la moda attuale di chef e ristoratori vari di inquinare il loro mestiere con indebite e ovviamente incatalogabili incursioni nel mondo dell’arte e della letteratura.

“I cuochi troppo fantasiosi mi fanno perdere le staffe. Spesso in cucina prevale il cazzeggio, si cerca di sorprendere. Ormai nei menu non è difficile imbattersi in piatti presentati come “aria di…”, “polvere di…”. In un ristorante ho persino trovato una “pomata di zucchine”. Mi viene schifo solo a pensarci.

È una terminologia insulsa e cretina, che si ripercuote in portate bellissime che poi non sanno di niente. Già nel Cinquecento Giovan Battista Marino diceva: “È del poeta il fin la meraviglia…”. Ahimè, penso che per molti grandi cuochi oggi sia lo stesso”.

Ma il suo tagliente giudizio non si ferma certo al lato estetico e formale di un piatto, ma va nel profondo, Raspelli, alla sostanza.

Dove per sostanza non si intende semplicemente un giudizio completo e inflessibile sulla preparazione delle pietanze ma anche sul mondo della critica gastronomica, a suo parere servilmente allineata ed appiattita di fronte alle stelle mediatiche che ormai chef e ristoratori sono diventati:

“Anche adesso, a differenza di tutti gli altri critici, se mi capita di mangiare in un ristorante pessimo lo scrivo. In Italia c’è solo un altro come me. È Massimo Visintin, sulla cronaca di Milano del Corriere della Sera.

Nessuno ha il coraggio di ammettere che un piatto non gli è piaciuto. Che vuole, il giornalismo italiano è tutto una marchetta. E non solo quello gastronomico.

Intanto il giovedì continuo a curare le mie recensioni su La Stampa. Ai ristoranti ho aggiunto un’altra rubrica che si occupa di alberghi. E quando c’è da dare qualche pestone, lo faccio anche lì senza troppi problemi”.

Schiettezza che gli ha ovviamente procurato lode e stima da stuoli di ristoratori riconoscenti: “Cuochi e ristoratori sono permalosi e irriconoscenti, la mettono sempre sul personale. Sapesse quanta gente mi ha tolto il saluto”, continua il critico.

Ma attenzione, i giudizi di Raspelli derivano non solo da una pratica e da un’esperienza quarantennale, ma anche da un fortunato equipaggiamento di gusto e olfatto, dei sensi, cioè, preposti ad assaporare e dugustare le preparazioni in ogni loro sfumatura, sensi preziosi, che Raspelli ha pensato bene di assicurare entrambi per un valore di 500 mila euro.

”Dieci anni fa – conferma Raspelli – ho stipulato una polizza con la Reale Mutua Assicurazioni. Mi costa 3mila euro l’anno e per fortuna finora non mi è mai servita. Vede, basta un raffreddore, un’anestesia dal dentista, magari un colpo in testa e uno rischia di perdere per sempre l’olfatto. Ma quell’assicurazione l’ho fatta anche per far parlare di me. E come vede funziona…”.

Il critico poi si sofferma sul livello della cucina italiana al giorno d’oggi, a suo parere – e per nostra fortuna – notevolmente migliorato rispetto a quarant’anni fa.

“Nel 1975 non era difficile trovare un ristorante pessimo – dice Raspelli. Sapevo benissimo dove si mangiava male, dove i camerieri si pulivano le unghie e bestemmiavano durante il servizio, dove i vini della casa sapevano di aceto. Oggi invece i nostri ristoranti sono i migliori al mondo. Si beve anche meglio. All’epoca il consumo medio di vino era di quasi 150 litri annui. Ora la media è di circa 30 litri. Gli italiani bevono meno, con più attenzione”.

E continua indicando quali, a suo parere, siano i dettagli che fanno precipitare un ristorante ai livelli più bassi della graduatoria, regalandoci anche un piccolo consiglio.

“La mancata corrispondenza tra la carta dei vini e la cantina è ciò che squalifica un ristorante. Oppure, peggio ancora, quando nessuno ti avverte che manca un piatto presente nel menu. A quel punto ti girano davvero le scatole. Ecco, voglio dare un consiglio d’amico: diffidate sempre dei ristoranti che propongono troppi piatti. Come potranno mai essere preparati con la giusta cura?”

Raspelli continua poi, sollecitato dall’intervistatore, con l’elencazione di tre ristoranti  che, secondo lui,  vale la pena di visitare.

“Il posto del cuore. Un ristorantino tipico, semplice e rustico, dove si mangia la cucina del territorio. È l’albergo ristorante Edelweiss: si trova a Viceno, frazione di Crodo, nell’alto Piemonte.

Recentemente ho mangiato da Dio al “Miramonti l’altro”, a Concesio in provincia di Brescia.

E poi c’è la Pergola dell’Hilton a Roma. Heinz Beck è un cuoco tedesco ma una grande bandiera della ristorazione italiana nel mondo.

E non posso non ricordare il ristorante di Gianfranco Vissani a Civitella del Lago, vicino Orvieto. Un cuoco che ho scoperto io”. Infatti, Raspelli è stato uno dei primi a scrivere sul talento del sanguigno chef umbro, con un articolo risalente al 1982 per il giornale “Gente motori”.

E a proposito di Vissani, e alla recente sua pacata esternazione relativamente a vegani e vegetariani, Raspelli racconta: “Personalmente sono contro gli estremismi, anche gastronomici. Eppure ammetto di nutrire qualche dubbio. Da qualche tempo inizio a domandarmi se sia lecito uccidere un animale per mangiare. Perché vede, da un punto di vista nutritivo le proteine vegetali possono sostituire le carni”, argomenta il critico.

Anche se alla domanda riguardo a una sua eventuale svolta vegetariana risponde: “Ormai è tardi per cambiare. Ma quando mangio un pezzo di carne mi capita spesso di riflettere. Ho 67 anni, mia moglie dice che se continuo così tra una quarantina d’anni diventerò vegetariano”.

Riguardo poi alla recente sovraesposizione mediatica di osti e cuochi Raspelli la liquida velocemente, relegandola ad un semplice fenomeno di costume.

“È un boom mediatico, più che televisivo. Del resto gli ascolti di questi programmi sono quelli che sono, non certo astronomici. Ma sono contento che finalmente anche in Italia ci sia spazio per bravi cuochi e ristoratori professionisti. Altrove, come in Francia, succede da anni. Meglio tardi che mai”.

E infine, non poteva mancare la stoccata verso TripAdvisor, quello che orami è diventato il luogo virtuale dove poter sfogare rancori e frustrazioni, sotto forma di “pareri” su ristoranti regalati con tono saccente ed allure simil-professionale anche dal figlio adolescente del vicino di casa.

“Credo che alla prima causa persa, Tripadvisor inizierà a filtrare i commenti. Ho letto recensioni assurde, gente che si lamenta per aver vomitato dopo cena. Ma come si fa? Recentemente mi ha chiamato il proprietario di un importante albergo di via Veneto, a Roma, scusandosi desolato per le mie critiche su Tripadvisor. Il bello è che io non avevo scritto nulla.

‘Il mio giudizio potrebbe anche essere peggiore di quello che ha letto – gli ho spiegato – ma non sono mai stato nel suo locale’.

In parole povere, qualcuno aveva creato un profilo fasullo con il mio nome e la mia fotografia e aveva stroncato quell’albergo. Tripadvisor è come l’elenco del telefono: c’è posto per tutti. Mi spiace, ma non funziona così”.

E finisce con una massima di buon senso, che dovremmo tutti avere bene presente quando ci attacchiamo alla tastiera e con aria da Alberto da Giussano del cotechino ci precipitiamo a sputare pareri sulla ristorante sotto casa: “Quando guardo un’opera d’arte il mio parere non vale come quello di Vittorio Sgarbi. Per criticare il cibo servono esperienza, cultura e palato”.

Esperienza, cultura e palato.

Non basteranno una puntata settimanale ai ristoranti dei dintorni e un gusto, a nostro insindacabile parere, infallibile o  ben sviluppato, per fare di noi dei  veri e credibili critici gastronomici, se non agli occhi di parenti o amici.

Così come non basteranno due violette e una striscia di purè di piselli accompagnate da un menù mieloso a trasformare orde di cuochi con velleità artistiche in novelli Gauguin o trasognati  Rimbaud. Loro, sono in cucina non per scrivere poemi o per imbrattare piatti, ma semplicemente per fare il mestiere che si sono scelti: i cuochi.

Per fare altro, pittori o poeti, bisognava pensarci prima.