Forse avevate ragione voi. Forse parlando della tavola calda ritrovata negli scavi di Pompei usare il termine street food è un po’ esagerato. Forse quella bottega di epoca romana, che ha certamente il merito di aver portato sul piccolo schermo il termine termopolio, non era affatto un locale dedito al take away. Più probabilmente era… un pub!
O almeno, questa è la tesi sostenuta dall’archeologa americana Farrell Monaco, che adduce prove suggestive. Ma andiamo con ordine.
Il termopolio degli scavi di Pompei
A dicembre 2020 è stato presentato uno degli ultimi sensazionali ritrovamenti di Pompei: a quasi due millenni dall’eruzione del Vesuvio (79 d.C) che sommerse la cittadina romana sotto uno spesso strato di cenere e lapilli – una strage per loro ma un miracolo di conservazione per noi; e a più di 250 anni dall’inizio dei primi scavi archeologici, continuano a emergere meraviglie.
L’edificio portato alla luce in ottimo stato ospitava, ci hanno spiegato, un thermopolium, cioè un locale atto alla cucina e alla vendita di cibi caldi. Un po’ generico, detto così. In verità i thermopolium erano un tipo di bottega ben determinato: i loro clienti erano i servi e gli uomini di fatica, il popolino insomma, che stavano fuori tutto il giorno e a pranzo si mangiavano “una cosa al volo”, come dicono oggi da quelle parti. È per questo che i giornali di mezzo mondo hanno parlato di street food, cosa che ha fatto insorgere i fascisti travestiti da puristi della lingua (a volte i grammar nazi sono nazi e basta).
I quali nazionalisti del lessico hanno bellamente ignorato che:
- Se è assurdo parlare di street food per un cibo di 2000 anni fa, è altrettanto esterofilo e storicamente sbagliato parlare di cibo di strada: per gli antichi romani l’italiano è una lingua altrettanto “straniera” dell’inglese. (Per non dire poi del fatto che la stessa locuzione “cibo da strada” è nata molto di recente, e come calco proprio di “street food”, come ha spiegato qui Nunzia Clemente.)
- A usare il controverso termine è stato lo stesso direttore del sito archeologico, Massimo Osanna, nel bel documentario andato in onda sulla Rai. Osanna qualche minuto dopo ha addirittura pronunciato l’espressione “fast food”.
Come si mangiava nell’antica Roma
Ma davvero si trattava di bottega dedita allo street food, ossia di thermopolium? Attenzione, ora ne stiamo facendo una questione non più di nome, ma di sostanza. A Pompei antica c’erano più di 80 punti vendita di cibi e bevande, diretti a soddisfare una forte domanda che veniva, come si è detto, dagli strati più bassi della popolazione. Al contrario di quanto siamo abituati a pensare oggi, mangiare fuori all’epoca non era un’eccezione o un lusso per classi agiate, ma una necessità per chi era talmente povero che non aveva una cucina in casa (e spesso neanche una casa vera e propria, arrangiandosi per dormire in bugigattoli e tuguri). Secondo Annamaria Sodo, direttrice dell’Antiquarium di Boscoreale, nell’aera vesuviana dell’epoca solo il 40 per cento delle abitazioni urbane dei lavoratori poveri e il 66 per cento delle case “borghesi” avevano focolari fissi per cucinare. Ma appunto, di che locali si trattava con precisione?
Un lungo articolo su Atlas Obscura propone una tesi rivoluzionaria. Lo ha scritto Farrell Monaco, studiosa e divulgatrice, archeologa del cibo e appassionata di cucina. (En passant: l’archeologia alimentare è una disciplina affascinante ma che rischia di essere, più che scienza, letteratura fantastica. E per un motivo semplice: come per l’esobiologia, ovvero lo studio delle forme di vita extra terrestri, manca l’oggetto. Facciamocene una ragione: possiamo illuderci con la colatura di alici o i fermentati coreani, ma non sapremo mai davvero com’era il garum).
Monaco – il cognome ne denuncia gli antenati non propriamente sassoni – è un’archeologa che non si ferma alla teoria ma si lancia in ricostruzioni commestibili, una nerd degli impasti di due o tremila anni fa (altro che lunghe lievitazioni). Nel suo sito Tavola Mediterranea propone spesso ricette basate su un accurato mix di ritrovamenti archeologici, raffigurazioni d’epoca, libri antichi: sua per esempio, per rimanere a Pompei, l’interpretazione del panis quadratus con i caratteristici solchi fatti con uno spago (tipo come da qualche anno fanno gli home baker ad Halloween per fare un pane a forma di zucca).
Fast food o taverna?
Nel caso nostro, Monaco si basa su due tipi di fattori: visivi e materiali. Da un lato quindi gli affreschi, ritrovati nello stesso locale, e che sembrerebbero avere una funzione esplicativa più che artistica: siccome la maggior parte dei clienti era analfabeta, i dipinti erano come “menu grafici”. Anfore e utensili da cucina stavano quindi a indicare rispettivamente “Vendita vino” e “Vendita cibi preparati sul momento e cotti”. Il garzone che porta le vivande può essere letto come “Cibo da asporto” o “Si effettuano consegne”. E ovviamente le anatre selvatiche appese corrispondono a una voce del menu, tipo i piatti fotografati sopra al bancone del kebabbaro.
(Curiosità nella curiosità: come spiegano nel documentario, c’è un motivo per cui a fianco a delle anatre a testa in giù compare una gallina che invece è messa dritta. La posizione è dovuta al fatto che la gallina è viva, e le anatre sono morte: ma allora qual è l’utilità del pollo, come si decifra il dipinto? All’epoca, raccontano gli archeologi, certi volatili che oggi sono addomesticati non lo erano ancora completamente: in questa fase di transizione l’allevamento consisteva nel prelevare delle uova di anatra, e farle covare ad altri volatili domestici come le galline. L’insegna dice quindi, per la precisione: “Vendesi anatre semi-selvatiche”.)
Dall’altro lato, ci sono i ritrovamenti veri e propri, i resti di cibo presenti nelle anfore e nei dolium, contenitori di ceramica ancora più grandi. In uno di questi c’erano ossa di anatra, di maiale e di capra, oltre a lische di pesce e gusci di lumaca. Sembrerebbe trovare una corrispondenza precisa con la suddetta voce di menu: zuppa d’anatra, stufato misto. Ma, e qui entra in gioco tutta la nerdaggine dell’archeologa, questo non trova appigli nelle abitudini alimentari degli antichi romani. Non ci sono testimonianze infatti a proposito di piatti a base di carni miste stufate. E poi c’è la questione del dolium: quelle enormi giare erano utilizzate per conservare il cibo, non per cuocerlo. Un’altra ipotesi che è stata avanzata, quindi, è che si trattasse di un secchio dell’immondizia, un posto dove i lavoranti della tavola calda gettavano gli scarti di macellazione.
Oppure no. Scrive Farrell Monaco: e se fossero i resti di un brodo? Quello sì, che i romani lo facevano, con carni miste. E nei pressi del locale c’era una fontana, quindi l’accesso all’acqua era costante e garantito. “Riferimenti a tali piatti”, si legge nel pezzo, “compaiono nei testi storici: nel I secolo a.C., lo statista Cicerone si lamenta ‘del puzzo e del fumo’ delle bettole nella sua pungente invettiva contro Pisone, mentre Ateneo di Naucrati, scrittore greco-egiziano del III secolo, si riferisce al cibo nelle ‘mense comuni’ come ‘nient’altro che brodo e pezzi di carne’. Lo storico del II secolo Dione Cassio racconta persino un’occasione in cui l’imperatore Claudio abolì le taverne dove la popolazione era solita ritrovarsi e bere, e comandò che non si vendessero carne bollita o acqua calda”. Chissà poi perché.
Ma va bene, poniamo che Monaco abbia ragione: perché è così importante che il cibo servito a Pompei fosse effettivamente brodo? Ma è chiaro: questo cambia tutto! Cambia la tipologia del locale: difficile che un brodo o una zuppa liquida siano da asporto, più probabile vengano consumati in loco. Secondo la studiosa, che in questo frangente si basa sulle occorrenze terminologiche, la maggior parte dei posti che vendevano cibo a Pompei non erano thermopolium ma popina. Luoghi di ritrovo dove si mangiava, si beveva, si giocava e si chiacchierava. Insomma, taverne. Oppure, e qui Farrell Monaco piazza la stoccata finale, come si dice oggi, locali pubblici, public house. Abbreviato: pub. E chi siamo noi per darle torto?