Se di una cosa eravamo certi, è che il biennio ’20-’21 sia stato, oltre che quello della pandemia, quello delle piattaforme di delivery. Lo abbiamo visto, anzi lo abbiamo fatto: noi chiusi in casa, i ristoranti con le serrande abbassate, il risultato è che abbiamo cucinato come i pazzi, sì, ma anche ordinato da asporto come mai prima. Abbiamo visto i rider diventare una presenza quotidiana delle nostre vite, ma soprattutto abbiamo notato come mentre tutti o quasi ci impoverivamo, guardando con ansia a un futuro economicamente sempre più incerto, i vari Glovo e Deliveroo e Uber e Just Eat si facevano chiatti chiatti, come si dice a Wall Street. D’altra parte, è il capitalismo delle piattaforme, l’uomo più ricco del mondo è il fondatore di Amazon: un trionfo, una marcia inarrestabile per le start-up. E invece.
E invece il carrarmato inizia a scricchiolare. Ne abbiamo avuto un primo assaggio a fine marzo, quando Deliveroo ha fatto un discreto tonfo al debutto in Borsa, dove nelle prime ora di quotazione il titolo è stato sospeso per eccesso di ribasso: cioè perdeva troppo velocemente. Una strombazzata operazione record da 7 miliardi di sterline si è trasformata in un boomerang. Un episodio, si dirà. Ma potrebbe invece essere un segnale, una spia di un più grosso mutamento in atto. O meglio, del fatto che il grande successo delle piattaforme è più apparente che reale: che si tratti di una bolla prima o poi destinata a scoppiare. Più prima che poi, secondo il sito Grub Street, che dedica al tema un approfondimento in cui si elencano le ragioni per cui il boom potrebbe trasformarsi in un flop. Un’analisi incentrata sulla situazione Usa, che presenta delle particolarità diverse da quella italiana. Il quadro di riferimento però sembra quello, per cui siamo andati a dare uno sguardo dalle nostre parti.
Un sistema che corre ma non sta in piedi
Il primo motivo che fa sospettare l’esistenza di una bolla è di tipo economico, e può essere esposto con un paradosso: il settore delivery è in crescita galoppante, ma sta sempre in rosso. Intendiamoci: per un’azienda nuova, e ancora di più per un intero settore del tutto nuovo (ve li ricordate i fattorini delle pizzerie? Fino a qualche anno fa questi intermediari non esistevano e basta) è normale partire con forti investimenti ed essere in perdita per i primi anni. Però poi si deve raggiungere il pareggio, il momento in cui si finisce di perdere e si inizia a guadagnare. È il cosiddetto break even, che tradizionalmente si attesta attorno al terzo anno di vita, ma appunto è una misura che può variare.
Ora, le piattaforme delivery sono ben lontane da questo punto, il che è ancora più preoccupante se si guarda appunto al mostruoso successo di pubblico. Uber Eats: guardando il bilancio 2020 il gruppo è sotto di quasi un miliardo di dollari; la divisione delivery è responsabile per 145 milioni di dollari. Deliveroo (controllata da Roofood): quello che i trionfalistici comunicati definiscono “forte performance” non è un aumento dei guadagni ma una riduzione delle perdite, – 223,7 milioni di sterline, rispetto ai – 317 milioni del 2019. Glovo: non è quotata, quindi i bilanci non sono pubblici, ma il co-founder Sacha Michaud ha dichiarato qualche tempo fa di poter solo sperare in un futuro break even. Just Eat sembra un’isola felice: ha un modello leggermente diverso; si è staccata dalle altre piattaforme anche rispetto al rapporto con i rider, decidendo di assumerli con una svolta storica; ha comprato l’americana GrubHub. Ma anche loro non se la passano benissimo: nel 2020 hanno quadruplicato ricavi e utile lordo, ma nella stessa misura si sono moltiplicate le spese, per cui alla fine il saldo è sempre il rosso, e anzi è in costante calo negli ultimi 3 anni (- 33 milioni nel 2018, – 75 nel 2019, – 107 milioni nel 2020).
Insomma, questo sistema è come un bambino che non sa andare in bicicletta e sta in equilibrio solo perché corre a tutta velocità. Quali sono i motivi di questa situazione? Evidentemente, per quanto successo possa avere la consegna a domicilio di cibo caldo, un modello di business basato esclusivamente sui pochi spicci di margine tra il prezzo del cibo che va al ristoratore e quello pagato dal cliente, e che deve comunque ricompensare, per quanto poco, il rider, un modello del genere non regge. E allora la domanda sarebbe un’altra: che cosa tiene ancora in vita la bolla? Che costa spinge le start-up a continuare ad operare, gli investitori a continuare a buttarci soldi? La speranza che prima o poi le cose cambino, che funzionino: in genere è così.
Nel caso di specie, poi, si possono fare delle altre ipotesi: come ha detto l’anno scorso l’economista Franco Becchis intervistato da Avvenire, “Secondo un’altra teoria, che ancora non ha studi analitici a confermarla, i fondi di venture capital e private equity che finanziano queste aziende non puntano davvero alla redditività, ma solo a fare arrivare il valore delle azioni a livelli soddisfacenti. Quando ci riescono si liberano dei titoli, quotano la startup in Borsa ed escono dal business. Se i fondi avevano ragione, l’azienda si sgonfia”. Mera speculazione, quindi: non ci saranno studi analitici, ma il recente caso Deliveroo, con la sua chiara sopravvalutazione iniziale, sembra andare in questa direzione. Ancora più categorico è stato Mauro Del Corno sul Fatto Quotidiano: secondo lui la convenienza, l’encomia di scala, si realizzerà quando alla fine di operatore ne resterà solo uno, quando cioè l’oligopolio si trasformerà in monopolio. Fino ad allora, ogni operatore resiste anche se si fa sempre più male, nella speranza di essere quell’uno, e riprendersi tutto con gli interessi.
Nel frattempo, le piattaforme provano altre strade. Diversificano, puntando su servizi aggiuntivi e alternativi (Glovo con il quick commerce tramite i suoi dark store o con accordi come quello con il gruppo VéGé). Cercano di nobilitarsi, legandosi a prodotti iconici o a chef star (Deliveroo con il Consorzio mozzarella di bufala, Uber Eats con Alain Ducasse).
Gli altri problemi delle piattaforme di delivery
Oltre allo stato dei conti, c’è tutta una serie di altre questioni che fa presupporre un futuro poco roseo all’orizzonte. Il più ovvio: la crescita esponenziale degli ultimo anno e mezzo è in maggior parte dovuta alla pandemia. Ora, è vero che come dicono certi sondaggi, la maggior parte delle persone non perderà l’abitudine a ordinare la cena a casa, una volta provata questa comodità. Ma è anche vero che questi “studi” sanno tanto di tentativo di farsi forza, di automotivarsi, o di creare una profezia che si autoavvera: insomma, quando potremo tornare con serenità al ristorante un contraccolpo ci sarà.
Poi c’è la questione dello sfruttamento: che è doppio, nei confronti dei rider ma anche dei ristoranti, i quali si trovano spesso a sottostare a condizioni capestro. Per i rider, a parte il caso Just Eat che assume come dipendenti, andiamo comunque verso un generalizzato riconoscimento di tutele più ampie, che sarà oneroso per le compagnie. I ristoratori dal canto loro, o cercheranno modi per difendersi, o usciranno sempre più dal parco offerte dei servizi maggiori. Per esempio cercando di instaurare un rapporto diretto con i clienti (tramite social network, gruppi whatsapp…), oppure affidandosi a piattaforme “artigianali”, come quelle che stanno nascendo già specializzate su determinati settori, o tipi di offerta.
Alcuni dati sembrano andare in questo senso. Secondo una ricerca di RistoratoreTop, nel 2020 il 77% dei locali ha deciso di intraprendere la strada del delivery e dell’asporto, mentre il resto degli intervistati ha preferito lasciare chiusi i battenti. Ben il 43% degli intervistati ha dichiarato di fare delivery direttamente, con propria flotta di rider, il 3% di affidarsi unicamente a piattaforme esterne, mentre il 9% di utilizzare entrambe le modalità (il restante 45% sono gli indecisi e i ristoratori che non hanno percorso la strada del delivery). Durante i mesi di chiusura, infine, il 27% dei ristoratori ha creato una dark kitchen oppure un brand virtuale, anche impiegato nella produzione di cibi differenti da quelli prodotti abitualmente. Ma solo il 10% degli intervistati ha affermato di voler mantenere il delivery o la dark kitchen anche dopo le riaperture a pieno regime.