Stamattina mi son svegliato con i sudori freddi. Non so se a causa della peperonata o dell’anisetta, mi son tirato su con una domanda di quelle maiuscole: “e se i ristoranti, così come li conosciamo, finissero?”
La folgorazione è dovuta a un ragionamento notturno, tra le braccia di morfeo (quindi non so quanto lucido).
Buona parte delle attività artigianali cui eravamo abituati sono state sostituite da catene.
Jamie Oliver chiude 6 ristoranti italiani e incolpa la Brexit.
Un tempo c’erano i sarti e ora c’è Oviesse (oppure Armani: il livello è diverso, la logica è identica). Un tempo c’era il mobiliere e ora c’è Ikea. Un tempo c’era la torrefazione ora c’è Nespresso. Un tempo c’era la gastronomia ora c’è Carrefour Express.
Perché non dovrebbe succedere anche con i ristoranti? Perché l’artigianato non dovrebbe venir soppiantato dalla serialità? Intendiamoci: non è che un vestito di Valentino sia brutto. E’ che –piaccia o non piaccia– la modernità ha portato alla concentrazione.
Il fatto è che i ristoranti così come sono oggi, lo dicono in molti, sono difficilmente sostenibili.
Non è allora così peregrina l’idea che un capitalista –un emiro di Dubai, un fondo americano– investa sul Cannavacciulo di turno e apra invece che una manciata di locali, decine, in tutto il paese.
Nel mondo sta già andando così: Marco Pierre White, per dire, dà il proprio nome a una trentina di ristoranti. E pure da noi si inizia.
Gordon Ramsay aprirà ristoranti a tema Hell’s Kitchen.
In Italia, si sa, le cose arrivano dopo. Ma arrivano. Pensate, appunto, all’abbigliamento. All’arredamento. Oggi nel nostro paese trovare una sartoria o un mobiliere artigianale è più difficile che individuare un piatto vegano alla macelleria Cecchini.
E’ bene? E’ male? Ognuno scelga per sé. Se vi piacevano i sarti, siete panati. Se vi vestite solo da Zara, il futuro vi sorride.