Tra i termini che abbiamo scoperto in questo funesto 2020 e di cui prima ignoravamo beatamente l’esistenza, ci sono i codici Ateco. Quella lista che identifica, un DPCM dopo l’altro e fino al recentissimo Decreto Ristori, chi sta fuori e chi sta dentro: le attività che possono restare aperte e quelle che devono chiudere, gli esercizi che riceveranno aiuti dal Governo e contributi e quelli che rimarranno a bocca asciutta.
Tutto racchiuso in una magica lista di codici che però spesso genera il caos totale. Già. Perché storicamente, quando si registrava la propria attività commerciale, la scelta del codice Ateco non era così prioritaria come invece si sta rivelando oggi. Era solo una questione statistica, mica di vita o di morte. Quindi, allo stato attuale, può succedere che due attività quasi in tutto e per tutto equiparabili abbiano due codici diversi, e ricevano dallo Stato trattamenti diversi nella gestione dell’emergenza.
Come ci ha detto Christian Costardi, chef stellato che riceve meno aiuti perché il suo locale risulta come albergo e non come ristorante, “chi lo sapeva che in caso di pandemia sarebbero valsi i codici Ateco”?
Anche nell’ultimo Decreto Ristori, approvato in fretta e furia per garantire contributi a fondo perduto a chi è costretto a chiudere alle 18, alla fine è successo un pasticcio e, come ha fatto notare Confartigianato, dai 53 codici Ateco individuati per gli aiuti sono rimasti fuori, per esempio le pizzerie da asporto e le rosticcerie. Senza considerare le filiere agroalimentari, indirettamente (ma assai pesantemente) colpite dalla pandemia e dalle misure per contrastarla.
È il caso dei produttori di birra artigianale, per esempio, che attraverso l’associazione di categoria Unionbirrai proprio oggi lamenta assenza di considerazione, tra gli aiuti del Governo. Facile comprendere perché: se i pub lavorano pochissimo, i birrifici non possono lavorare granché. E così via, per tutte le categorie gastronomiche possiate immaginare.
“Ogni volta questa cosa dei codici Ateco è un terno al lotto”, ci spiega Bruno Panieri, direttore delle politiche economiche di Confartigianato. “Ora vediamo cosa succederà, visto che tanto la situazione è probabilmente destinata a essere modificata dai provvedimenti attesi per le prossime ore”.
Cos’è successo con il “decreto ristori”?
“È successo che il criterio individuato per la distribuzione dei ristori era legato al danno diretto arrecato dalla chiusura anticipata e dall’orario limitato, e alla fine sono stati esclusi tutti i codici che si riferiscono formalmente all’asporto, per esempio le pizze al taglio”.
Qual è la differenza formale?
“Queste attività in realtà sono oggetto di “somministrazione non assistita”, ovvero possono mettere nel locale attrezzature per il consumo sul posto ma non fanno servizio di somministrazione”.
Dunque loro non hanno diritto ai ristori ma possono restare aperte?
“In pratica sì, anche se poi sono sottoposte ad atteggiamenti restrittivi dagli amministratori di polizia locale, perché le vedono come assimilabili alle attività che hanno l’obbligo di chiudere. E comunque pur restando aperti subiscono un calo della clientela dovuto al fatto che tutto il resto è chiuso”.
Ma non si tratta della stessa modalità di consumo che hanno pasticcerie e gelaterie?
“Infatti è questa la cosa assurda: non si capisce perché tra i codici Ateco ci siano quelli di pasticcerie e gelaterie, che hanno la stessa modalità di consumo e di vendita”.
Avete ricevuto risposte su queste vostre osservazioni?
“No, nessuna risposta. Il loro codice prevede l’asporto, dunque non è compreso, ma anche su questo ci sono comportamenti variegati a livello territoriale: alcuni considerano l’asporto con ingresso nel locale, altri solo quello dall’esterno”.
Insomma: questa cosa dei codici Ateco non funziona benissimo…
“Guardi, nella prima fase del lockdown ha creato tanti di quei problemi che se mi mettessi a raccontarglieli non finiremmo più. Il fatto è che il codice Ateco nasce per statistica, non per regolamentare le attività: sono segmenti tagliati con l’accetta perché servono per semplificare, quindi non prevedono tante specificità (pensate alla vicenda dei pub, che il Governo chiuse prima dei ristoranti e dei bar, nella prima fase della pandemia, nonostante i “pub” non abbiano un codice Ateco a sé, ndr) Non è un sistema funzionale, ma d’altra parte ci viene risposto che se si deve operare in regime di emergenza si fa di necessità virtù: come dagli torto?”.
Mah, la storia dell’emergenza funzionava in primavera, ora non proprio: nel frattempo non si poteva trovare un sistema migliore?
“La vera alternativa sarebbe stata garantire un sistema di controllo e prevenzione più efficace. Se pensiamo a tutti quegli esercizi che si sono dovuti attrezzare per la messa in sicurezza dei locali è chiaro ed evidente che questa è una beffa oltre che un danno, perché tutti i loro sforzi non sono serviti a nulla se poi le attività vengono fatte chiudere, e un regime prolungato di chiusura o di eccessive restrizioni comporterà un colpo mortale per moltissime attività”.
Sì, ma esiste un’alternativa ai codici Ateco sulla quale definire le diverse categorie commerciali?
“In realtà no. È un problema che abbiamo non solo a livello italiano ma in tutta Europa, perché la classificazione è europea. Per questo è stato aperto dall’istat un tavolo di lavoro per una revisione generale della codificazione, ma ci vorranno anni. Io ne faccio parte: quello che proveremo a fare sarà riclassificare le attività economiche alla luce di queste nuove esigenze che riscontriamo, che non sono solo statistiche come erano prima. Ma è un processo lento e laborioso, è difficile classificare in maniera netta le attività”.
Per la riclassificazione state andando in una direzione di semplificazione o di maggiore dettaglio?
“È come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. In alcuni casi serve più dettaglio, in altri meno. La mia personale idea è che il fenomeno da noi è enfatizzato dalla mancanza di buon senso. Ci diamo dei criteri generali per capire chi sta aperto e chi sta chiuso, e ormai li abbiamo capiti. Chi genera assembramento va chiuso, ma un bar in centro e uno sperduto nella campagna vanno incontro a situazioni diverse. Bisognerebbe quindi dare dei criteri più generali nella descrizione delle fattispecie di chi deve chiudere, ma poi ci vuole il buon senso. Perché noi siamo quelli che se la norma non lo dice allora non si può applicare, ed è questo atteggiamento che purtroppo un po’ ci appartiene che produce i problemi che vediamo in continuazione”.