Niccolò Bonavita, in arte Bolla, 34 anni, musicista. Anzi, no, rider. Almeno in periodo di Coronavirus. Un novellino del delivery per forza di cose, diciamo, perché ora che per i musicisti non c’è più spazio la sua vita è cambiata, nella carissima Milano dove le consegne a domicilio vanno alla grande, ma i fattorini sono trattati come untori. I diritti sul lavoro, per lui, sono meno di quelli di prima.
Perché se è vero che la ristorazione è messa in ginocchio dal Coronavirus, a soffrire anche di più c’è il settore artistico. Che ne sarà di attori, suonatori, cantanti, ora che il mondo dello spettacolo ha chiuso le serrande? Ognuno fa quello che può, resiste con le proprie risorse e, se le risorse non bastano, si presta al mondo della ristorazione, indossando uno zainetto termico e inforcando una bicicletta.
Da musicista a rider
Così ha fatto Niccolò, che fino a ieri viveva di musica, con il suo contrabbasso, suonando in tutta Italia. Concerti, serate, un progetto ben avviato con i colleghi del Bolla Trio. Poi, il Coronavirus, niente assembramenti, niente più musica e bye bye sogni di gloria.
E allora Niccolò ha alzato il telefono, chiamato Glovo e si è messo a fare il rider. “Suonare era impossibile”, dice. “Ho pensato: mi metto a pedalare, faccio un po’ di ginnastica. Piuttosto che stare a casa a guardare Netflix, almeno guadagno qualcosina”. A Milano gli affitti sono cari, le spese fisse ci sono, e se le entrate non arrivano bisogna pur inventarsi qualcosa. E così, Niccolò da un po’ più di un mese consegna cibo a domicilio.
– Sei riuscito a tirar su un po’ di soldi?
“Insomma, la paga è una roba ridicola, si sa. All’inizio poi fai poche consegne, danno priorità a chi lavora da più tempo. Diciamo che al momento riesco a guadagnare sui 100 euro alla settimana, più o meno. Un po’ aiuta, meglio di niente. E poi pedalo, mi tengo attivo, e faccio anche girare un po’ l’economia: se qualcosa si è mosso, in fase di lockdown totale, è anche grazie a noi rider”.
– Quindi non è male, in fondo?
“L’aspetto più bello è vedere Milano vuota. Pedali, non c’è traffico, non c’è inquinamento: è una meraviglia, la più bella primavera degli ultimi dieci anni. E poi di buono c’è che sei libero di fare quello che vuoi. Anche perché per come sei trattato, ci mancherebbe anche non poter decidere”.
– Perché, come sei trattato?
“Parliamoci chiaro: i rider sono gli ultimi degli ultimi. Sotto di loro c’è solo il caporalato, che è illegale. Il trattamento verso chi lavora è osceno, pensa solo alla questione dello zainetto…”
– Che roba dello zainetto?
“Quando ci si iscrive alla piattaforma, vengono scalati 65 euro per lo zainetto, manco fosse un North Face, il power bank e l’affarino per tenere il telefono sul manubrio. Così si fa pubblicità alla piattaforma, con il logo sulla schiena, pagando per farlo, al prezzo che vuole l’azienda chiaramente”.
– È una cosa che fanno tutte le piattaforme?
“Non so, Glovo lo fa, Deliveroo invece no: ora mi sono iscritto anche sulla loro piattaforma”.
– Quanto guadagni a consegna?
“Dipende dal chilometraggio, dai 3 ai 6 euro. Diciamo che in un’ora mediamente si guadagnano 6 o 7 euro, ma c’è il fattore tempo di attesa: a volte si aspetta il cibo anche tre quarti d’ora, ovviamente non retribuiti”
– Eppure si parla di rider che guadagnano anche bene, è vero?
“Sì, c’è chi tira su 2000 euro al mese, ma si spara anche tredici ore al giorno di consegna. Attenzione: questi ragazzi qua, per la maggior parte africani, sono dei fighi, e ho il massimo rispetto per loro, perché si fanno un mazzo mica da ridere. Si sono iscritti a tutte le piattaforme, si sono aperti la partita Iva, gestiscono gli ordini perfettamente, si comprano la bici con la pedalata assistita e tirano su anche 100 euro al giorno. Ma lavorare per tredici ore consecutive non è mica vita”.
– Quindi confermi che c’è un problema di diritti della categoria?
“Ma certo che c’è. Questi devono lavorare con la pioggia, col freddo, col pericolo del traffico. Io posso anche permettermi di incazzarmi, perché il mio lavoro è un altro: lo dico per loro, non per me. E in questo periodo la situazione è ancora peggio”.
– E perché?
“Perché i rider sono trattati come untori. Ho assistito io stesso a episodi di razzismo, frecciatine urlate dai passanti mentre aspettano la consegna davanti a un locale. Secondo loro i rider dovrebbero smetterla di andare in giro e stare chiusi in casa. Ma quanto fatturato hanno portato i rider? Se non ci fossero stati loro l’economia avrebbe patito anche di più”.
– E la questione sicurezza?
“Spesso la situazione è deplorevole, ma anche da parte dei locali: in questo momento, se non ti organizzi per gestire bene gli ordini, va a finire che ci troviamo in mille ad aspettare fuori dal locale, creando assembramenti. E poi la colpa è dei rider, non del locale che non ha messo a lavorare un pizzaiolo in più il sabato sera. I rider sono il capro espiatorio perché sono gli unici che lavorano”.
– Vi hanno dato mascherine e guanti?
“Il comune ha messo a disposizione cinque mascherine a testa e cinque paia di guanti, una tantum”.
– Hai avuto modo di conoscere altri che come te si sono messi a fare i rider in questo periodo?
“Certo, in tantissimi si sono improvvisati come me. Ho visto uno fare Glovo con una Harley-Davidson, roba che ti costa di carburante più di quanto guadagni. E poi gira voce di una signora di 75 ani che consegna con la macchina. Ho anche conosciuto un’intera famiglia che si è messa a fare consegne in questo periodo: lei in macchina, il marito in scooter e il figlio in bici”.
– Cosa hai capito delle abitudini alimentari dei Milanesi, in questo periodo?
“Che sono uno schifo. Tendenzialmente la maggior parte degli ordini sono da catene di fast food, o da pizzerie che non sono proprio il massimo della qualità, in generale. Il ristorante gourmet non mi è mai capitato, ma forse loro si organizzano autonomamente per le consegne: non puoi dare in mano a un rider qualunque un piatto da 50 euro”.
– E della gente, cosa hai capito? Hai qualche aneddoto particolare da raccontarci?
“Guarda, in un mese ho visto di tutto un po’. Un pizzaiolo che stava per picchiarsi con il suo rider. Locali rinomatissimi che vivono nella disorganizzazione: se ti chiamano da Poporoya (il sushi bar più antico della città, ndr.) ti fai il segno della croce, perché sai che ci vorranno ore. Rider che non parlano italiano, e il call center della loro piattaforma non ha neanche pensato di mettere del personale che parli inglese o francese: un sacco di volte mi trovo io a fare da interprete, perché loro sono abbandonati a se stessi. Alla fine, per me, è un po’ un esperimento sociologico: ne approfitto per vedere un mondo che non conosco, e intanto tiro su due soldi, aspettando di poter tornare a fare musica”.
– Secondo te i consumatori dovrebbero boicottare le piattaforme?
“No, perché danno comunque lavoro a tanti”.
– E quindi, cosa potremmo fare?
“Se gli stai dando un euro di mancia, dagliene due. Io lo dico sempre, quando mi danno la mancia: non darla a me, ma al prossimo che arriva, dagliene il doppio: è gente che veramente lavora tantissimo”.