Per qualche anno, ho lavorato in una pizzeria. Questa esperienza breve e tutto sommato fallimentare – ma molto molto divertente, e molto molto faticosa – non fa di me un pizzaiolo, ci mancherebbe. Però ha fatto di me una persona diversa, forse migliore. Tra le cose che mi sono portato a casa, che ormai fanno parte di me: a livello professionale, ho iniziato a scrivere di pizza, e di cibo in generale (no, la pizza a casa non la so fare, non vi invito!); a livello personale, piccole sciocchezze che però quasi tutti trascurano, come l’abitudine ad augurare sempre buon lavoro quando esco da un locale, e a lasciare la mancia ogni volta che posso, perché mentre noi siamo clienti e ci stiamo divertendo – affinché noi siamo clienti e ci possiamo divertire – ci sono forse altrettante persone che stanno lavorando.
A livello generale, una serie di consapevolezze: per esempio quella di trovarsi su una specie di palcoscenico (e questo, benché la competenza del pizzaiolo sia limitata rispetto quella dei cuoco tout court – anche se, maneggia la chimica imperscrutabile della lievitazione quindi è una specie di alchimista – questo fa della categoria una sorta di avanguardia rispetto alle contemporanee cucine a vista, perché il pizzaiolo ha sempre lavorato sotto gli occhi di tutti, anzi portare il bambino a vedere quel buffo signore infarinato che lancia i dischi per aria e li prende al volo ha sempre rappresentato una versione più economica del circo). E però, contemporaneamente, di venire percepiti come trasparenti, esseri non udenti, non pensanti, quasi macchine gastronomiche, indifferenti a quello che succede in sala, in un certo senso superiori, in un altro inconsciamente ancora inferiori (le parole contano, il turno di lavoro si chiama sempre servizio), comunque diversi. Diversi lo sono di sicuro, i lavoratori del food. Ma sentono e pensano: sentono noi, quello che diciamo e anche quello che pensiamo solo, e soprattutto pensano a noi, proprio né più né meno di come noi pensiamo a loro. E, sorpresa, proprio come noi li valutiamo e li giudichiamo, loro ci valutano. Ci classificano. Ci giudicano.
Ci voleva quel gran genio di Tommaso Melilli, per sbattercelo in faccia una volta per tutte. Melilli – cuoco e scrittore come pochi, anche se lui preferirebbe il contrario – ne I conti con l’oste (Einaudi, 2020) aveva raccontato il suo viaggio di formazione dall’Italia alla Francia e ritorno, e con la scusa dell’autobiografia (l’autobiografia è sempre una scusa, tranne quando è autofiction) aveva fatto emergere com’era cambiato il paese delle trattorie. Ora torna con Cucina aperta (66thand2nd), che è una auto-traduzione e aggiornamento del suo primo libro, curiosamente scritto in francese e uscito oltralpe nel 2018.
Melilli dichiara con brutale candore che Anthony Bourdain è “la persona che cercavo di diventare da molto tempo”: lo ha fatto più volte, lo ripete ogni volta che può – ma lo dice nel momento in cui ne racconta il suicidio, rendendo patente la contraddizione (io, che ho letto Kitchen confidential tardi, in un momento diverso della mia vita, e forse della storia della gastronomia, ho delle forti perplessità riguardo al personaggio, alla sua mitopoiesi, ma me le tengo). Kitchen confidential squarciava un velo raccontando quello che nessuno fino ad allora aveva mai raccontato, e che però da quel momento in poi tutti avrebbero fatto, cioè i retroscena delle cucine chiuse; Melilli, che è nato e professionalmente cresciuto già nell’era delle cucine aperte, delle cucine “a vista” come si dice, non mostra di che lacrime grondi e di che sangue il coltello dello chef, ma la testa. Ci parla di quello che si muove nei pensieri dei cuochi: quello che gli chef non dicono.
Nel libro si trovano curiosità – l’inventore della Caesar salad si chiamava veramente Cesare (ed era italiano), per la Nutella bisogna ringraziare Napoleone – e piccole gemme rivelatorie: perché la nouvelle cuisine poteva essere diversa (e come sarebbe radicalmente cambiata la storia della gastronomia), il modo in cui la Guida Michelin ha comprato e neutralizzato un temibile avversario, il motivo scientifico per cui contrariamente a ciò che si dice non siamo quello che mangiamo, ma mangiamo quello che siamo.
Si trovano però soprattutto squarci su quel dietro le quinte che si diceva: non quello delle cucine ma quello dei cuochi. Ecco qualche esempio.
Perché gli chef sono maniaci
All’inizio, Melilli parla della sua infanzia, ma non in termini idilliaci (quanti piatti si chiamano “ricordo d’infanzia”, e cheppalle) bensì orrorifici: e così spiega bene il passaggio neofilia alla neofobia. La prima fase è quella in cui gli infanti iniziano a manifestare curiosità per qualsiasi cosa mettono in bocca i grandi, e magari assaggiano – se glielo si permette – anche le robe più assurde, speziate o piccanti. La seconda fase è tipica dei bambini un po’ più grandi, che iniziano a esplorare il mondo da soli e giustamente diffidano di tutto: chi ha figli, o una memoria prodigiosa, conosce bene il periodo bianco, che per i più fortunati si può alternare al periodo rosso; sono gli anni (sembrano secoli) in cui l’unica domanda lecita in cucina è: pasta al burro o al sugo?
Quello che non pensiamo quasi mai è quanto tale fase possa essere fondativa di una carriera, di una identità di cuoco:
“Non mi fidavo di nessuno: le persone che cucinavano per me erano per definizione dei traditori, dei maestri dell’inganno che provavano un diabolico piacere nell’aggiungere ingredienti invisibili e dal sapore conturbante (…) Nei mesi e negli anni successivi (dopo aver cucinato per la prima volta ndr.) osservavo i capperi, le acciughe le cipolle e le zucchine, e mi sembrava di incontrare degli antichi nemici di una guerra senza senso. Il punto non erano i capperi, il punto è che avevo il terrore di essere tradito, e trovare i capperi là dove mi era stato garantito che non ci sarebbero stati. Se non volevo essere tradito, l’unica soluzione era che me ne occupassi io. In un certo senso, non ho mai smesso di occuparmene io”.
Perciò attenti, se gli chef vi sembrano maniaci del controllo, beh è proprio perché lo sono.
Il vero motivo per cui uno chef non ti darà mai una sua ricetta
Non è che la ricetta è segreta. È che dare una ricetta è impossibile. C’è un capitolo molto bello, intitolato con raffinatezza Le parole e le pentole, in cui si spiega quanto è diverso cucinare in un ristorante da cucinare a casa; quanto è difficile tradurre in parole le istruzioni per preparare un piatto (anche perché, di fatto cos’è una ricetta?); quanto è snervante sapere che quelle istruzioni saranno in gran parte disattese. Perché non c’è questo o quell’ingrediente, perché manca il tempo o la voglia, perché in fondo ci sentiamo tutti chef e ci piace fare di testa nostra.
E però, nel libro stesso ci sono varie ricette, alcune dettagliate, altre accennate, altre negate. Dare una ricetta è impossibile. Eppure è necessario.
“Non si tratta forse dello stesso dilemma in cui inciampiamo ogni volta che dobbiamo dare un consigli a una persona cara che si trova in difficoltà? E non intendo in cucina: intendo in tutto il resto. Ordinare perentoriamente a un’amica di non rispondere mai più a quell’uomo che la sta facendo soffrire? Pur sapendo che la nostra amica risponderà lo stesso e continuerà a star male? Se in ogni caso risponderà a quel messaggio, non è forse meglio consigliarle come rispondere?”
Cosa mangiano davvero i cuochi
Cioè, non cosa si mettono nel piatto i cuochi, e non ci danno a noi. Ma cosa li fa tirare avanti in condizioni che non sono, nella maggior parte dei casi, né gratificanti dal punto di vista economico né comode da un punto di vista personale (trad: si lavora tanto, in orari di merda, con stipendi da fame).
“…essere sempre pronti a dare un poco di più di ciò che dovremmo, di ciò che ci viene oggettivamente chiesto, perché per chiedere espressamente ciò che vogliamo bisognerebbe saperlo e voi, nella maggior parte dei casi, ciò che volete davvero non lo sapete. Non lo sappiamo nemmeno noi, cosa vogliamo: ma sappiamo cosa volete voi. Tutte le sere, intorno alle 19:30, riconosciamo nei vostri occhi e nel linguaggio dei vostri corpi le tracce delle vostre giornate mediocri, complicate o atroci. Vediamo i vostri visi tesi e increspati e le vostre articolazioni irrigidite da lontano. Sappiamo cosa fare. Spesso, peraltro, fate di tutto per impedircelo, ma sappiamo gestire anche questo. Qualche ora dopo, se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, tornate a casa quasi felici. Ma che ne è stato delle vostre tensioni? Sono scomparse? Dove sono finite? (…) Tutta quella roba, quelle tossine, quegli scarti, quei rifiuti, quelle tensioni, restano con lui che stiamo dietro al bancone e dietro al pass. Perché l’apparato emotivo di chi fa il nostro mestiere funziona diversamente dal vostro: Siamo come le piante, ci nutriamo dell’anidride carbonica del vostro inquinamento affettivo e relazionale. (…) Per qualche motivo insondabile, abbiamo bisogno del veleno che ci lasciate. E se siamo cronicamente incapaci di federarci e di definirci è forse perché la nostra non è davvero una categoria, ma una variante genetica che ci rende, insieme a pochi altri, professionisti del desiderio”.