Amanti della critica schietta, mordace, sanguinaria, alias della famigerata “stroncatura”? Bene, è tutto finito.
Lo annuncia “Il giornale” affermando senza tema di smentita che la stroncatura è ormai “fuori dal menù”.
Dopo vari articoli di Dissapore sul sacrosanto diritto di critica anche rispetto a locali e ristoranti considerati intoccabili, qualcosa dev’essere arrivato a Milano dalle parti di via Negri (sede del quotidiano) che, con un articolo ispirato –diciamo così– ad alcuni recenti post di Dissapore (identificato come “uno dei più noti blog di cucina” ma non citato direttamente, un ritorno al passato, si faceva nel 2005) ci conferma che sì, la critica gastronomica negativa, la stroncatura, è bell’e che morta.
Andata, dissolta, evaporata. Sparita con la velocità del giornalista mercenario che spazzola disinteressatamente il piatto offerto dallo scaltro ristoratore in cerca di visibilità mediatica e relative critiche osannanti. Derubricata a una banda di meretrici pronte a vendersi per una carbonara destrutturata o un tuorlo d’uovo fritto.
O almeno, così succedeva “prima”.
Prima cioè –sempre a detta dell’autorevole quotidiano– dell’avvento di un habitué degli ultimi post di Dissapore, il buon Federico Effe Ferrero, che fin troppo spazio ha avuto di recente per l’indiscutibile merito di aver detto fuori dai denti cosa pensasse di due ristoranti stellati (Enoteca Pinchiorri e Uliassi), pecche e mancanze comprese.
Il giornale si lancia poi in una filosofica dissertazione sul mestiere del critico gastronomico, soffermandosi su una particolare categoria, quella del critico venduto, categoria che oggi, secondo il quotidiano, pare spopolare a discapito di quella, pura e integra, del critico indipendente.
E per supportare la sua linea di pensiero il quotidiano milanese coinvolge due nomi noti: Valerio Visintin, “il critico mascherato del Corriere della Sera che gira per i ristoranti italiani coperto da passamontagna e cappello perché nessuno conosca la sua identità” e Paolo Marchi, giornalista e ideatore del congresso di cucina Identità Golose.
“Beh, c’è un problema di indipendenza” –afferma Marchi– ci sono i pezzi rubati sul web, le marchette, le pubblicità. Ci sono gli inviti, che prima non esistevano, e come fai a parlar male di un ristorante dove non paghi?”.
Pare quindi che il problema della sciatteria osannante delle recensioni gastronomiche moderne sia tutto lì: negli inviti gratis. Nella disdicevole abitudine dei ristoratori di offrire pasti gratis per entrare nelle grazie del critico di turno nonché nell’ancor peggiore usanza di questi ultimi di accettare.
In realtà, riesce difficile pensare che il problema sia tutto lì, nel semplice fatto di non pagare il conto e di non dar fondo alle proprie finanze, per quanto il problema economico, per chi svolga professionalmente l’attività di critico gastronomico, non sia certo secondario.
Il critico gastronomico di professione, infatti, non è come il tronfio dilettante che va una volta all’anno nel ristorante stellato e si sente competente se ci sputa sopra e se ne fa beffe su TripAdvisor: no, lui omaggia della sua visita parecchi locali (come indicato da Dissapore qui ), sferrando duri colpi al proprio bilancio, ed è quindi “comprensibile” che un aiutino sotto forma di pasto gentilmente offerto possa risultare gradito ai più.
Il problema però è un altro, ed è di tipo “deontologico”, alias di correttezza professionale sin dall’origine: posso io, critico gastronomico, restare lucido e obiettivo quando non scucio di tasca mia centinaia di euro per un pasto al top, e quando, oltretutto, vengo omaggiato di simpatia, cordialità, (simil)amicizia, per quanto di convenienza?
Posso io, per quanto onesto intellettualmente, per quanto consapevole che possa trattarsi di un’abile messa in scena finalizzata alla recensione favorevole, fare tabula rasa di tutto per scrivere che il filetto era troppo cotto o che il servizio lasciava a desiderare?
No e per un semplice motivo: a me, ospite di riguardo in quanto armato di penna ma soprattutto di discreto o anche notevole seguito di visibilità mediatica, il filetto verrà sempre servito cotto a puntino, e il servizio si mostrerà sempre al massimo.
Non sarà difficile quindi essere distaccato, imparziale e obiettivo restando comunque sincero e con la coscienza linda, in quanto la recensione positiva corrisponderà per forza di cose alla verità oggettiva delle cose e del trattamento a me riservato.
Ovvio poi che, come riporta l’articolo, si scada nella critica di maniera, ossequiosa, servile, in un mare di desolazione dove anche la seppur minima voce discordante, come quella di Ferrero, venga percepita come voce che grida nel deserto.
Ma davvero basterebbe non accettare i famigerati inviti per poter recensire obiettivamente un locale, davvero basterebbe visitare ristoranti e trattorie in forma anonima, come un cliente “qualunque” per emettere un verdetto sincero, obiettivo e affidabile?
La recensione negativa del pur bravo Visintin che segue l’apertura di un nuovo ristorante o di una pizzeria, non è anche quella ormai parte di un copione conosciuto in anticipo?
Il mondo della critica gastronomica pare senza speranza, e l’articolo si conclude lapidariamente affermando che “la critica, a tavola, non si serve più”.
Eppure, in questo oscuro mare di umana sciatteria e servilismo a buon mercato (si fa per dire), alcuni sprazzi di “coraggio e autonomia di giudizio” si possono invece riscontrare: possono vestire panni sconosciuti o rassicuranti, esserw giovani o di consumata esperienza, provenire dal web o dalla carta stampata.
Forse saranno loro a ridare lustro e dignità al mestiere più à la page e più inutile del mondo: quello del critico gastronomico. Il problema è capire chi sono.
Ecco, chi sono?
[Crediti | Link: Il Giornale, Mangiare a Milano, Identità Golose, Dissapore]