Sembra trascorso molto più tempo dal 2004, quando sulle spoglie di un vecchio hangar portuale di Copenhagen nasce Noma, il ristorante che avrebbe imposto negli anni a venire la “ny nordiske kokken” –ossia, per noi terroni cisbaltici, la nuova cucina nordica.
Una cavalcata trionfale che ha visto l’ingresso del ristorante tra i migliori del mondo a partire dal 2009. La 50 Best Restaurant, lista dei 50 migliori ristoranti del mondo, in quell’anno accredita il Noma del terzo posto.
Per poi piazzarlo l’anno dopo al primo, dove il ristorante danese si accomoda per quattro anni quasi consecutivi: nella fattispecie 2010, 2011, 2012 e 2014 (nel 2013 arriva secondo, alle spalle dello spagnolo El Celler de Can Roca).
A sette anni dall’ingresso in quella classifica, e dopo sette aperture temporanee disseminate nel mondo con ristoranti pop up immediatamente riempiti, Noma come lo conosciamo si appresta a chiudere i battenti nell’imminente febbraio.
Che ne sarà del bel René Redzepi, lo chef e proprietario del ristorante che ha restituito al mondo l’innocenza del palato?
All’inizio è solo la persona con i requisiti giusti per togliere le castagne di Claus Meyer, dal fuoco. Meyer, cuoco, personaggio tv e imprenditore seriale della ristorazione, cerca lo chef per un “nuovo ristorante raffinato” da aprirsi a Copenhagen. in Danimarca, all’epoca, ristorante raffinato significa essenzialmente ristorante di cucina francese.
Meyer però intende smetterla con burri, lunghe cotture, brodi densi e pesanti, vuole virare verso ingredienti danesi come barbaforte, bacche di prugnolo, foglie di faggio, ostriche del canale di Limfjorden e luccioperca.
Si candida Redzepi, allora 23enne, fresco di uno stage nel ristorante più influente dell’epoca, El Bulli, guidato da un altro spagnolo, Ferran Adrià.
“Non ero affatto nervoso, pensavo che stessimo aprendo un ristorante senza ambizioni da stella Michelin”, ha appena detto Redzepi all’Observer.
Ma per assecondare i desideri di Meyer, nel frattempo diventato suo socio, il giovane cuoco si concentra su strane prelibatezze cacciate in quei freddi boschi, pescate in quei freddi mari, presentate su tronchi e pietre in luogo dei soliti, maledettamente mediterranei, piatti da portata.
La rivoluzione inizia, ma in Danimarca non se ne accorgono. Anzi, i media locali sono scettici, per usare un eufemismo. Va meglio con la stampa internazionale che entusiasta inizia a parlare di sperimentazioni, rivisitazioni e conversioni.
Per cogliere l’attimo tutto il personale di Noma, T-shirt con lo scollo a barca d’ordinanza, grembiuli a righe e le famose galosce inizia a sporcarsi di terra per estrarre tuberi mai visti da un terreno sabbioso e gelido.
In cucina entrano pesci insoliti: merlanghi, pollock, lompi serviti con capperi, dragoncello e crème frâiche.
La mistica del foraging, la ricerca di erbe, funghi e radici selvatiche nella natura incolta, prevede che si perlustrino anche i formicai, gli insetti finiscono in tavola al pari di tecniche prima estranee alla cucina danese: affumicatura e fermentazione soprattutto.
Redzepi e Meyer, i due guru della suddetta “ny kokken”, sono ormai figure di statura internazionale, il loro avanguardistico exploit culinario influenza la Danimarca, tanto che la capitale si ritrova 12 ristoranti stellati Michelin.
L’annus horribilis è il 2013: 63 commensali vengono infettati dal Norovirus, responsabile di crampi intestinali, diarrea e vomito quando contratto da acqua o da cibo contaminato.
Ma gli incidenti non fermano i predestinati. Redzepi porta Noma con tutto il suo personale all’Hotel Mandarin Oriental di Tokyo. In due minuti vengono sbigliettate 5600 prenotazioni. Stesso successo stellare per l’altro trasloco temporaneo, Noma Sidney: 5600 prenotazioni bruciate in 90 secondi, elaborando l’equivalente di un milione di dollari in prenotazioni.
E siamo in dirittura d’arrivo con Noma Mexico: sette settimane di ristorazione selvatica in mezzo alla giungla inospitale, con camerieri scalzi e un conto da 600 dollari a coperto.
Un modo di farsi le ossa per quel che arriverà dopo, ovvero Noma 2.0.
Per ora l’unico segnale è il cartellone con su scritto: “Il nuovo Noma lo stiamo costruendo qui”, apparso di recente a meno di dieci minuti in bicicletta dalla sede attuale, sempre a Copenhagen ma nella zona di Christiania.
A progettare la nuova struttura, più una fattoria urbana che un ristorante vero e proprio, è una stella dell’architettura danese –lo studio BIG– che promette di sorprendere. Nonostante non sia stato ancora scavato un singolo metro di terreno, Noma ha già rinunciato ad alcuni progetti ambiziosi, come quello di un giardino galleggiante, per esempio, sacrificato ai vincoli ambientali.
Cambia l’approccio, Noma 2.0 diventa anche una specie di fattoria sperimentale. “Uscire la mattina per tagliare il prezzemolo fresco è il sogno di ogni chef”, ha detto Redzepi all’Observer, “ma la realtà è che raramente noi cuochi siamo liberi di sperimentare con le varietà”.
Lo chef, in altre parole, non vuole semplicemente coltivare carote e cipolle, ma cercherà di recuperare e in alcuni casi introdurre altra biodiversità nel suo territorio.
Va da sé che Noma 2.0 comporta molti rischi. “Ci vorranno 25 anni solo per ripagare l’investimento”. Con tutte le incognite del caso: “Una direzione tanto diversa piacerà ai nostri frequentatori? Incontrerà i gusti delle persone in cerca di novità? Soddisferà i palati esigenti dei critici?”.
Ancora oggi, nonostante il successo e tutto ciò che è passato dal giorno dell’apertura, nel 2014, Redzepi convive con la paura del salto nel buio.
L’appuntamento è in una data non meglio precisata del 2017 (forse), allorché scopriremo se lo chef danese ha motivo di temere le vestigia del Noma classico.
Quelle che aleggiano sul Noma 2.0 come il fantasma del dramma amletico
[Crediti | Link: The Guardian, Dissapore]