Certo fa sorridere di questi tempi usare il termine “dittatura” per una scemenza come un pranzo al mare. Ma in qualche modo, ironico e paradossale, se non goffo e traballante, di dittatura si tratta. Almeno, “alimentare” chiamiamola così.
I fatti: l’estate ci è collassata addosso senza neppure passare dal 21 di Giugno, la primavera è durata tre giorni, quel tanto che basta per far impazzire i siti di ricette e comprare una cassetta di piselli. Stop. Le temperature di Roma sono così imbarazzanti da aver scombussolato pure le zanzare. I primi codoni di romani si sono già recati in pellegrinaggio per guardare il Tirreno che si sbatte contro la spiaggia rosicchiata di Fregene. Nelle loro macchine domenicali si respira la stessa temperatura delle isole Svalbard mentre i cofani si sfaldano sotto abbondanti strati di sole. Tutto pur di avere una frittura di calamari e uno spaghetto con le vongole.
Una volta chiesi a un’amica quale suggestione e quale desiderio di martirio si annidasse in lei per decidere, ogni domenica, di incolonnarsi su qualche strada litoranea per godersi (godersi cosa, poi) una vista in quinta fila dal lettino su un mare discutibile popolato da ciurme di tatuati. Mi aveva risposto: “sai, il pranzo al mare non si tocca. È sempre stata una cosa di famiglia”. C’è tutta un’ideologia intorno a questo momento che si è arricchita e diversificata nel tempo in una modalità indiscutibile e indiscussa. Negli anni ha alimentato una sorta di isteria collettiva che ha nella domenica la sua massima epifania: i romani nel fine settimana non vanno al mare, piuttosto schizzano via come proiettili impazziti, come se la sola idea di mettere i piedi nella sabbia ustionandosi i talloni li liberasse da tutte le angosce delle loro settimane lavorative.
Di questo rituale comunitario, il “pranzo al mare” è l’espressione massima. E ha portato a un simpatico assioma, che poi è la vera dittatura: il ristorante al mare deve servire pesce, punto. In certi casi: il ristorante al mare deve servire solo pesce. Non c’è deroga a questa regola assoluta, non c’è qualcuno a cui sia venuto in mente di chiedersi: ma perché? Se c’è una coerenza geografica, dovrei attendermi il pesce di lago al lago, il pesce di mare al mare, la cacciagione o la carne in montagna, in città quello che cresce spontaneamente sugli scaffali del supermercato. Tutto regolare, se non fosse che il concetto di prossimità in un ristorante di pesce a Ostia o a Fregene, o lungo il litorale laziale, sarà vero come è vero che vincerò al superenalotto: non molto. Tutto regolare se non fosse che il concetto di prossimità nella filiera alimentare in questo secolo sfigatissimo è vero come è vero che vincerò il Pulitzer: anche quello, molto poco. Soprattutto considerato che di pesce nel Mediterraneo ce n’è sempre meno.
Aprendo un menu qualsiasi, si fa lo slalom tra asterischi, simboli di fiocchi di neve, salmoni e pesci extra-locali ma anche extra-mediterranei che non giustificano l’idea ostinata di “ristorante di pesce” come equazione di “ristorante con cibo di prossimità”. Vogliamo davvero credere che sparsi sugli 8000 kilometri di costa italiana, ci siano solo ristoranti che propongono pesce fresco, locale e stagionale? Che tutti i ristoratori abbiano il loro pescatore, come hanno il loro orto, che frequentino l’asta del pesce, che trovino i calamari già tagliati a rondelle, già pastellati solo da friggere mentre ancora nuotano? O piuttosto vogliamo dirci che quei pochi che fanno questo lavoro li riconosci dai prezzi e dalla proposta, mentre gli altri, per coerenza, potrebbero anche servire pasta al pomodoro?