“C’è stato un tempo in cui si entrava in una azienda e poi probabilmente si finiva la carriera nella stessa, magari nello stesso dipartimento. Non è più così“: a spiegarcelo è Francesco Venuti, direttore del master in Food and Beverage Management di ESCP, programma di studio post-laurea (equivalente a una laurea specialistica di secondo livello) che, ad aprile 2021, si è posizionato al primo posto della classifica globale di Eduniversal dei migliori programmi specialistici che preparano a una carriera internazionale nel campo dell’industria agroalimentare e delle bevande.
Un master che, come spiega il professore, punta a una conoscenza ampia perché “è finita l’epoca della parcellizzazione delle conoscenze“. Capacità sistemica, flessibilità, conoscenza dei trend emergenti e gestione degli stessi: queste sono le caratteristiche del manager di domani. In campo gastronomico e non. Perché, da ciò che abbiamo compreso intervistando Venuti, anche le tradizionali classificazioni e distinzioni tra settori e tipologie di aziende si stanno evolvendo e assottigliando.
Professore, quali caratteristiche si aspettano di riscontrare le aziende, oggi, in un food manager?
Il manager tradizionale non basta più; bisogna avere competenze sempre più sistemiche, skills sempre più manageriali ma anche tecniche. Ovvero, non è necessario essere un tecnico della blockchain o un esperto del digitale, ma avere una conoscenza di base in quel settore. D’altro canto chi ha una formazione più tecnica (penso per esempio a chi ha studiato scienze della nutrizione) deve necessariamente integrare con nozioni nel business. Poi la comunicazione, oggi, è sicuramente fondamentale.
Il nostro settore sarà sempre più “phygital”: cioè l’ambito digital si integrerà con quello fisico, rendendo man mano fondamentale saper integrare efficacemente le esperienze online con quelle offline. Una strategia che già oggi si dimostra vincente, laddove si riesce a diminuire la discontinuità tra ciò che si esperisce onsite e online.
In quest’ottica, si consideri che l’ambito gastonomico è fortemente esperienziale; qui lo spazio per l’innovazione è amplissimo. Un esempio su tutti, la distanza tra i driver che determinano l’esperienza della ristorazione offline e online, ovvero una cena al tavolo del locale e la stessa ordinata delivery: ecco, sul miglioramento dell’espierenza “offsite”, nonché sulla compenetrazione tra i due fronti, per ridurne al minimo la distanza, c’è moltissimo su cui lavorare.
Può occuparsene il ristoratore?
Ci sono dei ristoratori che sono effettivamente degli imprenditori/innovatori. Ci sono ampi spazi e sicuramente avrà un vantaggio competitivo. Anche il desiderio di innovare non è necessariamente innato; anche i piccoli imprenditori hanno spazio per curare la propria professione.
Quali sono le lauree più indicate per una formazione verticale come quella del business nel food and beverage?
Nel nostro master ci sono parecchi laureati in economia, molti in scienze della nutrizione, altri in lettere, storia e filosofia: non è una questione di lauree specifiche in entrata, ma più di passione. Mi sentirei di sconsigliare, però, di intraprendere questa strada perché “funziona”, o perché va di moda, per quanto il mercato ci sia e si trovi lavoro. Bisogna essere flessibili, pronti ad orientarsi e riorientarsi in base ai trend. Insomma, è più una questione di attitudine, anche perché le professionalità oggi sono molto composite. Penso per esempio all’utilità di una laurea in matematica nell’analisi dei dati per fornire suggerimenti al management per prendere le proprie decisioni. Noi non formiamo specialisti del marketing o della comunicazione: diamo una conoscenza sistemica. Nel primo semestre apprendono tutte le conoscenze di base nel management, e poi si va nello specifico declinando le proprie conoscenze in base al proprio orientamento.
E in quali ambiti, specificatamente, le aziende agroalimentari stanno assumendo?
Ormai le grandi aziende hanno tutte dipartimenti interi dedicati alla sostenibilità, e anche quelle di medie dimensioni si sono strutturate in questa direzione. Ma non solo, serve chi si occupi di bilanci e rendicontazioni; su questo fronte vale la pena sottolineare che mentre le aziende strutturate hanno tutti gli strumenti necessari, le piccole e medie sono più in difficoltà. E non riuscire a rendicontare le proprie azioni può rappresentare una forte penalizzazione. Faccio un esempio: un’azienda italiana fornitrice di carni è riuscita a vincere un appalto per una grande azienda multinazionale di ristorazione all’estero perché il fornitore precedente non rispondeva sufficientemente ai parametri legati alla sostenibilità.
È ragionevole pensare che molte aziende non agroalimentari stiano differenziando con il food?
Per molti anni si è andati nella direzione della iper-specializzazione e della iper-frammentazione: l’inversione di questo trend sarà sempre più palese. Così come sul lavoro il grande vantaggio competitivo sarà di chi ha una visione sistemica, le imprese avranno sempre più bisogno di essere integrate.
Le classificazioni dei settori saranno sempre più fluide, e in parte lo sono già. Cosa produce Ikea? Cos’è Amazon. E Uber? La risposta sta nelle attività, non nelle categorie, e quella alimentare sarà, sempre di più, un’area compenetrata in altre categorie.
Questo riguarda l’innovazione. Poi c’è tutto il settore preesistente: Costa crociere, per esempio. Aprire a nuovi spazi di collaborazione.
Come cambia il settore, anche in ottica del Covid?
Il campo food and beverage è stato impattato in maniera differente rispetto agli altri settori. Con una distinzione necessaria tra ristorazione e alimentazione. Sull’hospitality la pandemia ha avuto un impatto notevole, ma che ha comportato una risposta assai dinamica (si pensi al boom delle dark kitchen, alla forte accelerata nel food delivery, alle novità come le box a domicilio). Insomma, un po’ come quanto accaduto nella scuola, il Covid ha comportato gravi problemi e una forte accelerazione di fenomeni già in atto, specie sul fronte della tecnologia e dell’innovazione.
Dall’altra parte c’è tutto il settore del food in senso stretto, che non ha quasi conosciuto crisi se non problemi di supply chain (andamenti anomali della domanda). Se guardiamo ai singoli settori, la crisi di fatto non c’è stata. Penso agli spumanti, per esempio, che addirittura hanno riscontrato un aumento della domanda.
Per il resto procedono i trend che erano già avviati: l’agrifood-tech, la sensibilità all’etica e all’ambiente, l’healty, la riscoperta delle tradizioni culinarie e del local, naturalmente la sostenibilità, la diminuzione degli sprechi, la tracciabilità e le tecnologie.
Un capitolo a parte riguarda i nuovi modelli emergenti: le carni plant based, i novel food e in particolare l’introduzione degli insetti in culture che provano verso di essi “disgusto”, con tanto di strategie conseguenti per superarlo. E ritorniamo al punto di prima: si fa leva sulla sostenibilità e sui valori nutrizionali, considerando l’alto valore proteico di questi “nuovi cibi”, calcolato in rapporto all’impatto ambientale sul clima, è davvero molto vantaggioso rispetto a quello delle carni.