Mangiare cinese in Italia: dov’eravamo rimasti? Al punto di partenza: è possibile andare oltre la banalità dell’involtino primavera o ci si deve per forza abbandonare sulle poltrone da gnomo dell’economy, volare a Pechino e atterrare dritti in un ristorante con un minimo di velleità?
No, se si considera l’ipotesi del ristorante Bon Wei, avamposto milanese del cibo cinese in versione Zhejiang.
Non sono mai stata in Cina, difficile dirvi se c’è conformità con l’originale, ma se a parlare fosse il gaudio papillare raggiunto durante la cena, vi garantisco che non sarebbe questo il punto.
In altre parole, ho scovato il fattore gourmet della cucina cinese a Milano dopo aver pensato per anni che fosse stata impoverita da misere rivisitazioni occidentalizzanti.
Volete anche voi? Andate meno nel primo cinese che capita. Dimenticate l’omologazione al ribasso dell’immancabile triade involtino primavera – pollo alle mandorle – gelato fritto. Concedetevi un’immagine diversa fatta di forme e sapori eleganti come capita al Bon Wei.
Si apre con due zuppe (non sono un kamikaze che mangia per due, al tavolo siamo io e un’amica, l’accordo tacito prevede piatti sempre diversi per assaggiare di tutto), la prima, zuppa Xiangla dell’Anhui, regione montagnosa a Est della Coina, è una beatitudine scandita dai wan ton fatti con una pasta impalpabile e ripieni di maiale, gamberi e funghi.
Il brodo di gallina lascia filtrare tutti i sapori del cipollotto, del bambù, del cavolo cinese, come ovviamente il tocco deciso del peperoncino: meraviglia vera.
L’altra zuppa di wan ton è più delicata: stessa consistenza vellutata della pasta ripiena di grossi gamberi, bambù, erba cipollina.
I prezzi delle zuppe vanno da 8 ai 16 euro (quella di abalone): non siamo nel classico cinese sotto casa, ricordate, vero?
Assunto e ribadito il concetto che zuppa cinese non significa necessariamente magma denso e appiccicoso possiamo passare sollevati all’antipasto.
Arriva il consiglio di Le Zhang, da più di 20 anni in Italia, figlio dello chef che s’intravede dalla sala per un gioco di riflessi e finestrelle.
Nei ravioli ripieni di gamberi e bambù torna sempre gradita la nuvoletta di pasta (di riso) che prima carezza il palato e poi sprigiona il ripieno gradevolmente dolce e… petaloso (i lettori di Dissapore mi perdoneranno).
Ancora rapiti dal sapore del piatto precedente trascuriamo gli involtini ripieni in crosta di tofu affumicato.
Si finisce con i ravioli di carne alla griglia: carne di maiale, erba cipollina, zenzero, salsa di soia e olio di sesamo.
Leggermente croccanti all’esterno, si fanno apprezzare per la sapidità del ripieno.
Anche in questo caso i prezzi vanno dai 4,50 agli 8 euro.
E’ il momento della famosa anatra laccata del Bon Wei, pregustata addirittura a casa, durante lo studio preventivo del menu.
La presentazione scenografica rimarca l’importanza del piatto, che viene preparato al tavolo da una cameriera elegante assemblando pancake di riso, cetrioli e porri crudi tagliati alla julienne, una salsa ai frutti di mare con anice stellato e naturalmente lei: l’anatra.
Ipnotizzanti cura e precisione; la parte meno piacevole, il lato B di questa situazione, è che poi tocca al cliente costruire il resto dei bocconi. Palese goffaggine e stridente disarmonia con la gentilezza di movimento della cameriera.
Aggiungete poi che, dietro consiglio del personale, abbiamo mangiato l’anatra nel pancake con le mani.
Lei in punta di bacchette, noi muratori con cazzuola.
La cottura dell’anatra, ci spiegano, è molto laboriosa e lunga, se ne ricava una carne non stopposa e con il valore aggiunto della pelle un po’ dolce un po’ sapida, grassa e decisamente gustosa.
La salsa è lontana dai nostri sapori assodati, una sorpresa.
Un quarto d’anatra al Bon Wei, unico locale di Milano che la serve in monoporzione, costa 17 euro.
E’ il momento delle cosce di rana fritte al sale e pepe, altro piatto che si mangia con le mani.
Presentazione: un nido dove sta facendo ritorno il legittimo proprietario realizzato con il vezzo dell’intagliatore: bello che quasi passa la voglia di mangiare.
Sapori decisi, pastella appena croccante, coscette carnose.
Costo: 15 euro.
Che siamo distanti dalla grevità di molti cinesi l’abbiamo detto, ribadisce il concetto lo sgrassatore naturale per mani unte: limone, petali di rosa, tè verde.
Quanta grazia, soprattutto se paragonata alle salviettine chimiche al limone post sauté di cozze. Una vera piaga dei ristoranti di pesce. Altra classe.
E poi Le Zhang si gioca il jolly, convincendoci che lo suizu di manzo del Sichuan è da provare per forza.
Siamo avvisate: il grado di piccantezza è da professionisti visto che nello stufato, oltre al filetto di manzo, ci sono due tipi di peperoncini freschi, altri 2 secchi, olio piccante e pepe di Sichuan, e poi erba cipollina, aglio e germogli di soia.
Collocato giustamente alla fine del pasto, non potrebbe stare da nessun altra parte: vi ucciderà le papille per una buona mezzora.
33 euro di porzione generosa, nonché d’intensità piccante che necessita allenamento.
Provateci a finirlo se ne siete capaci, provateci anche con la ciotola di riso che qualcuno, mosso a pietà, vi fa arrivare al tavolo.
Sarà per la sazietà raggiunta, forse per i peperoncini assassini, ma soccombiamo. Non dopo aver pescato dalla zuppiera quasi tutta la carne.
Peccato: il manzo è molto morbido, il sapore è intenso, oltre al piccante i peperoncini aggiungono note di gusto.
Dopo una lunga pausa, superata l’esperienza metafisica del manzo, apriamo alla possibilità di assaggiare il dessert: budino di zucca con panna, e polpette dolci fritte con sesamo, ripiene di pasta al sesamo nero e scorza d’arancia.
Il primo dolce è un concentrato di zucca, addolcito ulteriormente da panna e caramello. L’altro è caldo con il topping alla vaniglia che prende il sopravvento, l’anima della polpetta è comunque piacevole.
Prezzi dei dolci: da 6,50 a 8 euro.
Verso mezzanotte torniamo a casa satolle e rinfrancate: mangiare cinese al Bon Wei è un’esperienza capace di suscitare vivo interesse. E siamo a Milano.
Costa di più ma esce dal coro del già visto, del monosapore, della cucina raffazzonata. Alla fine è soprattutto per questo che decidiamo di andare al ristorante.