“L’impressione è che pesi anche una certa questione morale, legata all’immagine che si rischia di dare alla città di Milano; quando viene chiuso un locale per legami mafiosi al mondo della politica si drizza i capelli”, un problema di immagine, secondo il giornalista del Corriere della Sera Cesare Giuzzi, tra i motivi alla base dello scarso utilizzo dell’interdittiva antimafia. Uno strumento fondamentale – “il più efficace” organizzata stando alle parole della coordinatrice della direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Dolci – che la Prefettura ha in mano nella lotta alla criminalità.
Si tratta di una misura preventiva e cautelare attraverso la quale un imprenditore perde la fiducia delle istituzioni e il diritto di essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni: essa mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa tesi a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione, tanto a garanzia del buon andamento, dell’imparzialità e della legalità dell’Amministrazione, nonché della leale concorrenza nel mercato e del corretto utilizzo di risorse pubbliche (v. Cons. Stato, sez. III, 31 dicembre 2014, n. 6465). “Un’arma potentissima” in mano allo Stato – come si evidenzia ne Il giro dei soldi, saggio dal quale siamo partiti per questo ciclo di interviste sulla mafia nella ristorazione – che può portare alla revoca della licenza e alla cessione dell’attività. Arma che, leggiamo, “fece una carneficina durante EXPO”, ma che negli anni, si è arenata.
“Ciò è molto preoccupante, specialmente in questo momento”, sottolinea nella nostra intervista Ilaria Ramoni, avvocata cassazionista esperta in diritto penale della criminalità organizzata, riferendosi agli aiuti di Stato legati alla pandemia, che riguardano in particolar modo la ristorazione: “è bene che questi soldi vadano alle attività sane e oneste”.