È consentito criticare un ristorante, un locale stellato, uno chef da tutti osannato? O ci sono degli intoccabili? Ce lo siamo chiesti qualche giorno fa a proposito della stroncatura del Bros’ di Floriano Pellegrino da parte di un blog americano, pezzo che ha fatto il giro del mondo e ha scatenato dibattiti che hanno bucato anche la bolla food. Ce lo chiediamo a maggior ragione adesso, che Carlo Cracco ha vinto una causa per diffamazione contro Achille Ottaviani, direttore della testata online La Cronaca di Verona. Il giornalista è stato condannato per una stroncatura in cui diceva tra l’altro “risotto insipido, carne dura, verdure che non vi si abbinavano, se non nella follia di una grandeur culinaria che non è esistita”: dovrà pagare una multa di 10.000 euro come pena (la diffamazione è un illecito penale, un reato) e 20.000 euro di risarcimento allo chef, fatta salva per Cracco la possibilità di richiedere ulteriori danni in sede civile.
I fatti risalgono al 2016: il pezzo, molto breve, è ancora online (viva l’internet!). E ovviamente all’epoca diventò virale, scatenando le ire di Carlo Cracco, e spingendolo a una querela per diffamazione, che non è cosa tanto frequente nell’ambito della ristorazione, anche tra gli chef con un ego montato a sifone. Tra l’altro la vicenda giudiziaria ha avuto un twist, un’ulteriore complicazione dopo che il pubblico ministero nel 2017 chiese l’archiviazione, cioè che non si iniziasse affatto il processo. A questo punto Ottaviani prese a maramaldeggiare, scrivendo un altro editoriale breve e puntuto in cui dava a Cracco della “stella cadente” (il ristorante ne aveva appena perso una nella guida Michelin di quell’anno). E si beccò una querela anche per quello.
Ottaviani però aveva gioito troppo presto: il Giudice dell’udienza preliminare non accettò la richiesta del PM titolare dell’indagine (può capitare) e diede inizio al processo, quello che è arrivato a sentenza adesso. Nel frattempo è andato avanti anche quell’altro procedimento, quello successivo, nel quale il giornalista è stato condannato a settembre (può capitare anche quello, che una causa successiva finisce aprima) a pagare 1000 euro: poco in confronto ai 50.000 chiesti dall’avvocato di Cracco, ma pur sempre una sentenza di condanna.
La diffamazione e tra diritto di critica e diritto di cronaca
Fine delle stroncature, allora? Il genere, in un settore come il nostro che tende alla genuflessione nei confronti delle chef-star, già non gode di grande salute. Il pezzo di Giorgia Cannarella su Munchies è una fotografia abbastanza impietosa del livello di consapevolezza e di dibattito attuale nel mondo della ristorazione, dagli chef ai critici. Se poi ci si mette anche la magistratura, è la fine. Anche perché finora, come si diceva, il ricorso in tribunale non è una strada molto battuta, a differenza che in altri ambiti: i politici per esempio da decenni brandiscono il reato di diffamazione come un’arma nei confronti dei giornalisti, insieme alla richiesta di ingenti risarcimenti per danno all’immagine. È un deterrente che funziona perché spesso il giornalista non arriva neanche a formulare frasi che possono ingenerare fastidio, si autocensura, visto anche che la categoria – come quella degli editori che dovrebbero fare da garanti – economicamente non se la passa benissimo. Se anche gli chef iniziano a prendere quest’anadazzo, a mettere mano alla querela ogni volta che sentono arrivare una recensione men che agiografica, siamo fritti: possiamo dire addio non solo alle stroncature, ma anche ai giudizi da 5,5 in pagella (che se vado a riguardare, è il voto che ho messo di più: e nella mia ancora breve carriera di critico, proteste ne ho avute tante ma cause mai). O forse no. Forse non è la fine della critica, ma l’inizio. Vediamo perché.
La materia è complessa, si può dire che il reato di diffamazione sia uno dei più dibattuti e soggetti a interpretazioni. Scrive la Cassazione: “Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Cass. Pen. 36045/2014).
La giurisprudenza pone come requisiti l’esistenza del fatto criticato (non si può costruire una critica sulla base di fatti inventati) e la continenza verbale (l’utilizzo di forme ed espressioni che non siano inutilmente aggressive o offensive per la dignità di una persona). Un paio di anni fa, con una sentenza che ha fatto parlare, è stato assolto il cliente che aveva accusato il gestore di avere prezzi alti e “truffare” sul peso.
Le decisioni sono varie, e non sempre coerenti tra loro. Per esempio, sembra esserci una differenza tra giornalista (che fa della critica e soprattutto della cronaca il proprio mestiere) e il quivis de populo, come direbbe il giudice, cioè il privato cittadino che va su Trip Advisor o su Facebook e spara a cannone. Ma soprattutto c’è una differenza tra sentenza e sentenza: com’è noto in Italia le decisioni dei tribunali, anche di quello supremo come la Cassazione, fanno da precedente ma non creano norme erga omnes, cioè (scusate mi scappa il giuridichese) valide nei confronti di tutti. E i precedenti possono essere seguiti o no. Ma torniamo al caso di specie, che ha un plot twist interessante.
Come si scrive una stroncatura
La diffamazione, come si è detto, trova i suoi limiti nel diritto di critica e nel diritto di cronaca. Quest’ultima, che configura l’essenza del mestiere di giornalista, si pone come limite più stringente perché bisogna attenersi ai fatti, e questi fatti devono essere rilevanti. La critica, per sua natura soggettiva, è maggiormente tutelata: può sembrare paradossale ma è così, l’opinione viene giudicata con maglie più larghe, proprio in quanto personale. La sentenza del caso Cracco-Ottaviani non è ancora uscita con le sue motivazioni, ma possiamo supporre che il giudice abbia accettato il ragionamento che ha portato il Gup a iniziare il processo. E il ragionamento non è sbagliato.
Il passaggio nel rinvio a giudizio era: “Il giudicante ritiene che il richiamo a fonti generiche, vaghe e sostanzialmente impersonali, non controllabili, assimilabili alla vox populi, non rispetti il primo dei limiti al quale è condizionato il diritto di cronaca e di critica”. Cosa aveva scritto infatti il giornalista? Vediamo le altre frasi oltre a quella sopra riportata:
- Menu, qualità del cibo e relative mescolanze sono state per la gran parte dei 400 vip invitati una delusione.
- Il commento più buono reso è stato “migliori le patatine San Carlo di cui Cracco fa da testimonial”.
- Tutti alla fine se ne sono usciti delusi, un po’ affamati e tentati di entrare nei kebab limitrofi.
Tutte espressioni che, sembra chiaro, non sono ascrivibili né alla cronaca né alla critica. Non alla cronaca perché le impressioni attribuite ad altre persone sono generiche, non circostanziate e non documentate. Non alla critica perché, appunto, non sono opinioni di chi scrive, ma altrui. Se il giornalista, sembra questa la lezione da trarre, avesse scritto “la maggior parte dei commensali ha lasciato le portate nel piatto”, magari corredando con tanto di foto, sarebbe stato cronaca, fatti. Se avesse detto “Per me una delusione, meglio le patatine, appena uscito sono andato a mangiare il kebab”, sarebbe stata critica, inattaccabile opinione personale. Così, è una via di mezzo che non merita tutela.
Allora, e generalizzando anche se non si dovrebbe, l’indicazione della magistratura sembra chiarissima: se volete stroncare, fatelo bene. Mettete in gioco le vostre competenze, le vostre impressioni, le vostre opinioni. Non sembra la fine dell’era delle recensioni: sembra l’inizio. E quel che è certo, su Dissapore continuerete a leggerne di pezzi così: non inutilmente cattivi, non fatti per lo sfizio di far incazzare lo chef, ma senza guardare in faccia a nessuno, e tendando di soddisfare l’esigenza di una sola persona. Quella che legge.