Non capita spesso che gli chef dicano dei loro colleghi cose seccanti o anche solo sconvenienti. Una delle poche volte ce l’abbiamo qui, su Dissapore.
In un’intervista del 2016 la nostra Sara Porro rivolge a Norbert Niederkofler una domanda che non sembra esporre lo chef del St. Hubertus, ristorante dell’albergo Rosa Alpina a San Cassiano in Alta Badia –due stelle Michelin– a rischi di incidenti diplomatici.
“Come si fa ad avere un ristorante che non solo resta di successo per vent’anni, ma rimane anche rilevante, interessante?”.
Invece, nella foga del momento, forse per affermare la propria unicità lo chef dal nome impronunciabile azzarda un paragone insolito:
“Tanti ristoranti classici fanno sempre le stesse cose, io, invece, non sto bene nella routine. Dal Pescatore, per esempio, può ben essere il miglior ristorante d’Italia ma da cinquant’anni hanno gli stessi piatti. Ho il massimo rispetto per il lavoro che fanno ma io non potrei. Quando le cose mi stufano non le faccio più”.
Per chi non lo conosce, Dal Pescatore è Relais Gourmand dei Relais & Chateaux dal 1990, e dal 1996 ha tre stelle Michelin, è dunque il ristorante italiano che le detiene da più tempo.
Non a caso, se esiste una tradizione italiana di alta cucina, il posto dove si trova incarnata è proprio il ristorante di Runate, frazione di Canneto sull’Oglio tra Mantova e Cremona, 36 abitanti che vivono circondati dagli orti, dai prati e dai boschetti del parco dell’Oglio.
Ora, buona parte degli amici gourmet ha lo sbadiglio facile, e di norma si annoia già al secondo pranzo nello stesso ristorante. In alcuni di questi non hanno il coraggio di tornare perché la prima volta sono rimasti ben impressionati grazie all’effetto-sorpresa, svanito il quale c’è il rischio che rimanga ben poco da percepire.
Dal Pescatore è uscito indenne dalla seconda visita del vostro cronista, qui, uno che coltiva aspirazioni da gourmet al pari dei bellimbusti appena descritti.
Siccome la noia è una tossina che avvelena anche al ristorante, così come lo chef del St. Hubertus è tediato dalla ripetizione continua degli stessi piatti, anche il cliente, alla terza visita, potrebbe sbadigliare e stancarsi.
Ragione per cui, quando Michelin Days –partner di Dissapore–, il sistema di prenotazioni che permette a giovani curiosi e intenditori con anni di menu degustazione, di organizzare pasti d’autore nei ristoranti della Guida Michelin aggiungendo vari benefici (sconti e occasioni introvabili altrove, dalle cene a tavola con lo chef alle prenotazioni garantite all’ultimo minuto), mi ha proposto proprio Dal Pescatore, cosa ho fatto secondo voi?
Sapendo esattamente quanto avrei speso prima di sedermi a tavola, ho prenotato online, dopo essermi registrato in pochi secondi.
Ho sbadigliato? Mi sono stancato?
Prima di rispondere vorrei parlarvi per un momento di Nadia Santini. Se il carattere antidivistico, umile e servizievole nei confronti degli ingredienti e dei clienti, la pone ai massimi livelli della gastronomia italiana, la perfezione esecutiva, insospettabile in una madre di famiglia, la colloca agli antipodi rispetto all’idea che abbiamo oggi di chef.
Eppure, secondo l’edizione 2013 della classifica progressista World’s 50 Best Restaurants, Nadia Santini è la migliore chef del mondo.
Evidentemente parliamo di una persona speciale, che cucina ricercando punti di equilibrio tra piatti tradizionali e consistenza dietetica.
Attenzione che “tradizionali” oggi è un aggettivo avvelenato: è sinonimo di vecchio, descrivere qualcosa in questo modo significa indicarlo come moribondo, quasi da evitare.
Ma definire barbosi piatti come i tortelli ripieni di zucca, amaretti, mostarda e parmigiano, serviti al burro fuso, cucinati ma anche preparati al momento, solo perché li hai mangiati per la terza volta è un’eresia. Stesso discorso per la terrina di astice con caviale Oscietra Royal e zenzero marinato, o per il foie gras d’oca in padella con frutto della passione e vino passito.
E sul fatto che mitezza, accoglienza e talento di Nadia Santini non siano sul punto di spegnersi, sento di potervi rassicurare.
Inutile chiedere discontinuità a suo figlio Giovanni, in cucina con la madre (nemmeno ad Alberto, il sommelier, che è in sala con il padre Antonio, nonché marito di Nadia).
Anche lui ha scelto di ravvivare i grandi piatti del passato che non vi faranno mai sentire preoccupati per le ricadute sul resto della giornata. Perché in cucina finisce nella spazzatura qualunque cosa non serva alla purezza del sapore: grassi, pasticci, cotture imprecise, miscele di gusti stinti, vecchi trucchi e nuove velleità.
I vini al calice che hanno accompagnato il menu degustazione sono:
Franciacorta Annamaria Clementi 2007 – Ca’ del Bosco (Lombardia)
I Capitelli 2015 – Anselmi (Veneto)
Riesling Grand Cru Saering 2012 – Domaine Schlumberger (Alsazia)
Marsault 2008 – Domaine Coche Dury (Borgogna)
Barbaresco 2012 – Gaja (Piemonte)
Ben Rye 2014 – Donnafugata (Sicilia)