“È ora di smetterla di dire che i giovani che cercano lavoro pensano solo ai soldi e agli orari: fanno bene a chiedere certe cose. Altrimenti lavorare nella ristorazione per loro non diventa più attraente. E il problema è nostro: proprio quello che sta succedendo adesso”. È un ragionamento semplice, quasi ovvio, quello del pizzaiolo Beniamino Bilali, eppure di questi tempi suona come scandaloso, provocatorio. Sono, questi, i tempi in cui la narrazione dominante della ripresa post pandemica vuole che i gestori dei locali siano in affanno, perché le ragazze e i ragazzi non vogliono più fare i camerieri e i cuochi, lavori troppo duri rispetto all’alternativa di stare a casa con il reddito di cittadinanza.
Beniamino Bilali è uno degli innovatori nel mondo della pizza, uno di quei personaggi che negli ultimi 10-15 anni ha trasformato il concetto del disco di pasta lievitata, da cibo senza pretese a oggetto di studio e ricerca, con ingredienti di qualità e topping cucinati. In particolare lui ha perfezionato la tecnica della fermentazione senza lieviti aggiunti e dell’idrolisi degli amidi. Anche se ha solo 36 anni, è dietro un bancone da quando ne aveva 16, quindi con due decenni di esperienza può definirsi un veterano. Anche se non è mai stato un imprenditore con un locale suo (“arriverà il momento, ma sento di dover accumulare ancora esperienza, in particolare all’estero”) e addirittura negli ultimi anni ha dismesso i panni del consulente per inquadrarsi come dipendente (“ma cambio spesso posto: cerco di non andare mai oltre l’anno”), il suo punto di vista è quello di chi fa impresa e gestisce locali. Eppure non ha esitazioni nel dar ragione ai giovani precari e sfruttati. Ieri ha scritto un post su Facebook che mi ha fatto saltare sulla sedia, e l’ho cercato per approfondire il discorso.
https://www.facebook.com/beniamino.bilali/posts/10222251217863312
Perché trovo sacrosanto dare la parola ai lavoratori: non solo (come fanno tutti) agli imprenditori che non trovano giovani disposti a fare certe cose, ma anche ai giovani che non trovano un lavoro decente ma solo sfruttamento (come abbiamo iniziato a fare qui). E però trovo ancora più interessante se a fare certi discorsi non è un ventenne alle prime armi ma un professionista navigato. Che per la sua storia è stato da entrambi i lati della barricata.
A un cameriere si chiede di essere parte del sogno, che non è il suo
“Ho iniziato”, racconta Bilali, “nei primi anni 2000, ero arrivato da poco in Italia dall’Albania, vengo da una famiglia di fornai. Facevo l’aiuto cuoco in un locale della riviera romagnola, siccome la maggior parte degli ordini era di pizza, ho iniziato anche fare l’aiuto pizzaiolo”. Me lo faccio raccontare perché mi interessa capire i suo background personale, ma anche le differenze tra le condizioni di lavoro dell’epoca rispetto ad adesso. “Era la classica trattoria italiana, gestione artigianale, ambiente familiare. Si lavorava duro, ma l’approccio al giovane apprendista era completamente diverso da adesso: si insisteva su tecnica e disciplina. Oggi invece a chi inizia il lavoro in un ristorante si vuole trasmettere la visione, gli si chiede di essere parte del sogno. Senza capire che a lui non gliene importa nulla, ed è giusto così: perché dovrebbe appassionarsi, sacrificarsi per una causa che non è la sua? Perché si considera tabù il discorso sulle mansioni e lo stipendio? Chi inizia un lavoro chiede quanto prende, cosa fa, per quante ore. Pretende di saperlo, ed è giusto così. Questa è l’era della velocità, degli acquisti su internet, i ragazzi sono abituati alla trasparenza e all’immediatezza delle transazioni. Può non piacerci ma è così. Poi con il tempo le cose cambiano, alcuni si appassionano al lavoro e altri lasciano, si fa una selezione naturale e lì si può innestare il discorso della passione, ma partirà da loro stessi”.
Bilali fa un ragionamento interessante, a questo proposito, sulla transizione verso la modernità nella ristorazione italiana: “Abbiamo cambiato approccio, abbandonando quello artigianale, la parte creativa si è un po’ persa, in favore della standardizzazione, mutuata dai processi industriali. Ma il lavoro nella ristorazione è rimasto ibrido, il cambiamento solo parziale. Abbiamo codificato le ricette, meccanizzato alcuni processi, però poi la parte del lavoratore è rimasta come una volta. Il dipendente deve eseguire compiti standard come se fosse in catena di montaggio, ma poi gli si chiede dedizione, 14 ore di lavoro, partecipazione emotiva. A quel punto quello preferisce la fabbrica, dove almeno finito il turno va a casa”.
Perché non si possono fare 8 ore come in tutti i lavori?
Ma gli sviluppi più recenti, ulteriormente accelerati dalla pandemia, stanno andando in tutt’altro senso, e Bilali lo sa: “I ragazzi che lavorano con me, che io provo a formare, sono molti diversi rispetto a una volta. Hanno maggiore consapevolezza, prima magari la massima realizzazione era trovare il posto fisso, oggi il lavoro è in remoto: internet, e poi la pandemia, ci hanno fatto scoprire che il tempo ha un valore”. Un’altra cosa su cui siamo rimasti indietro, secondo il pizza chef, sono le modalità di reclutamento: “Io cerco di guardare a quello che un giovane può darmi, a cosa potrà fare, non a quello che ha fatto. Invece la maggior parte dei gestori dei locali quando devono assumere vanno a guardare le esperienze passate, e se uno ha cambiato troppi posti non viene visto come una persona curiosa, ma come uno che ha qualcosa che non va”. E qui Bilali appoggia una considerazione che sfugge anche a molti sedicenti esperti di scienze sociali e movimenti giovanili, i quali superficialmente condannano le nuove generazioni bollandole come apatiche e apolitiche: “Dobbiamo capire che i giovani non accettano certi modelli. Ok, non dicono niente, non si ribellano, ma silenziosamente si sottraggono e poi finisce che non si trovano lavoratori”.
“Siamo noi”, continua, “che dobbiamo metterci in discussione. Non è vero che manca la voglia di lavorare, è però vero che oggi un diciottenne nella vita fa anche altro, e meno male”. Spesso poi si sente questo discorso qua: i social e la TV hanno portato il food al centro dell’attenzione, ma hanno anche creato l’illusione nei non addetti ai lavori di un mondo dorato, fatto di star e facile successo; poi chi arriva nelle cucine con queste idee in testa si scontra con una realtà dura, fatta di lavoro pesante. “Ma chi lo ha detto”, contesta Bilali, “che il lavoro in cucina è pesante. Non è pesante dai, mica stai andando in miniera. C’è questa retorica della fatica e della sofferenza, delle origini contadine, del padre che ha fatto la fame, del nonno che ha fatto la guerra… Anche basta. Il lavoro in cucina può essere pesante, certo, ma perché deve essere pesante? Perché non si possono fare 8 ore come in tutti i lavori? Evolve la ristorazione, come tutto il resto”.
Quel che è indubbio, e che molti imprenditori della ristorazione lamentano, è che pesi sulle casse delle aziende il cuneo fiscale, l’alto costo del lavoro, gli eccessi normativi e burocratici. Anche qui Bilali ha però un’opinione poco convenzionale. “Sì abbassare le tasse, ma quello è un discorso da fare casomai dopo. La prima cosa è una modernizzazione del pensiero, un cambio di mentalità. Perché, per esempio, di molte pizzerie, e parlo di brand anche famosi, non si sa mai che c’è dietro, non si fa il nome del pizzaiolo? Perché si ha paura che quello diventi una star e vada altrove, da un altro locale che gli offre di più? E ben venga, la concorrenza! Ci vogliono stimoli nuovi”.
Modernizzare vuol dire anche ridimensionare
Modernizzare può voler dire anche ridimensionare: “Anche io vorrei fare piatti strani, ma se mi accorgo che non è sostenibile dal punto di vista del tempo, del lavoro che c’è dietro, non li faccio; se per fare un piatto gourmet ci metto 16 ore, lo riservo a un evento, lo faccio per gli ospiti a casa, ma non lo metto in menu. Si parla tanto di sostenibilità ecologica, ma si dovrebbe parlare anche di sostenibilità economica, del lavoro. E così di conseguenza, l’impresa deve imparare a ridimensionarsi. Molti colleghi hanno iniziato a chiudere la domenica, e fanno bene. Se sei un piccolo locale, tieni uno o due giorni chiuso, inizia a fare orario spezzato invece che continuato: non puoi fare sette giorni su sette, dall’alba a notte inoltrata. In Norvegia, dove ho lavorato per qualche anno, i ristoranti lavorano cinque giorni alla settimana, e la cucina chiude alle 22, se qualcuno si presenta a quell’ora viene rimandato a casa, ma non si presenta nessuno perché lo sanno. Perciò io dico: meno tasse ok, ma dopo, perché se le togli adesso, resta tutto uguale. Purtroppo si è creato una specie di pensiero unico, diciamo tutti le stesse cose, e questo porta allo stallo”.
A proposito di pensiero unico, in conclusione chiedo a Beniamino se non teme di attirarsi le ire di colleghi e ristoratori. Mi risponde: “Io non sono esposto, ho un profilo basso, e questo mi permette di avere un pensiero libero e coerente. Mi sono arrivati mille messaggi dopo quel post, grazie per il coraggio, ma quale coraggio. Quello che penso non va contro una categoria in particolare, ma soprattutto credo che non bisogna colpevolizzare i giovani, bisogna capire perché non ci scelgono più. Prendersela con gli altri è espressione di un pensiero obsoleto: io mi trovo al centro tra due esigenze, ho una posizione intermedia tra gli imprenditori e i giovani lavoratori. E da questo osservatorio dico: approfittiamone. È il momento di un’analisi critica”.